Gli errori medici, le polizze sanitarie, ecc., ecc.
L’Amami, l’associazione italiana dei medici
ingiustamente accusati di malpratica –associazione di cui si ignorava
l’esistenza-, ha presentato un disegno di legge per inserire in ogni cartella
clinica, al momento del ricovero, un documento con il quale il paziente si
impegna formalmente a non ricorrere all’azione giudiziaria in caso di
contestazione sul trattamento ricevuto, affidando la soluzione della controversia a un collegio
arbitrale.
Nel nostro Paese,sempre
secondo l’Amami, sono circa 15 mila i medici denunciati ogni anno e l’80% dei
camici bianchi con vent’anni di carriera è stato denunciato almeno una volta
per un presunto errore, anche se poi due casi su tre si risolvono in una totale
assoluzione.
In un rapporto fornito alla Banca d’Italia,
l’associazione delle compagnie assicuratrici (Ania) ha dichiarato che le
polizze sanitarie stipulate dalle famiglie negli ultimi 10 anni sono più che
raddoppiate: erano 900.000 nel 1991 sono state
1.900.000 nel 2003 e che le denunce per colpa professionale del medico sono
aumentate dal 1994 al 2002 (otto anni) del 148%, quelle per responsabilità
delle strutture del 31%.
Di fronte a questi dati, ce
n’è abbastanza per allarmarsi, nonostante l’ottimismo o il pessimismo di
maniera sfoggiati, quando parla di sanità e non solo, dalla nostra classe
politica a seconda del ruolo (maggioranza o opposizione) rivestito.
Non c’interessa, come non ci ha mai interessato
difendere o offendere una o l’altra categoria, ma
cercare di interpretare i segnali, apparentemente non collegati, di un
malessere profondo, come questo, che concorre al cattivo funzionamento del
nostro sistema sanitario pubblico.
Noi riteniamo che alla base dell’aumento enorme delle denunce per malpratica e nello stesso tempo delle
polizze assicurative sanitarie stipulate dalle famiglie (di cui sarebbe
interessante avere lo spaccato sociale) ci siano diverse concause accomunate da
un unico comune denominatore chiamato “privatizzazione del sistema sanitario pubblico”.
Gli ultimi 10 anni hanno rappresentato una generale
ubriacatura, non solo nel settore della tutela della salute, provocata
dall’ingerimento a dosi massicce, specialmente da parte dei cosiddetti tecnici,
del concetto di “mercato” e di parole d’ordine quali “concorrenza” e “libera
scelta”.
Non è intenzione, in questa sede, valutare anche
attraverso il confronto tra i vari periodi di funzionamento del servizio
sanitario pubblico, quanto è cambiato in modo positivo
e quanto in modo negativo, per trarre alcune conclusioni, naturalmente
parziali.
Vogliamo riflettere invece se
tra la cosiddetta “azienda”, come viene definita l’unità sanitaria locale o
l’ospedale, il cosiddetto “dirigente medico”, come viene definito il camice
bianco, e il cosiddetto “cliente”, come viene definito il cittadino sia
aumentata anziché diminuire la diffidenza e la sfiducia sia per quanto riguarda
il rapporto generale tra servizio sanitario pubblico e cittadino e tra il
medico e il cittadino.
Noi abbiamo l’impressione di sì e non crediamo che
le cose si possano modificare con semplici aggiustamenti “tecnici” come quelli
suggeriti (clicca Giuseppe Remuzzi
per leggerlo) nell’articolo pubblicato sul “Corriere della Sera”.
Il cittadino, oggi, nonostante l’imperversare di una specie di “pensiero sanitario unico” si sente
completamente indifeso di fronte ad una burocrazia corporativa che trova la
giustificazione per qualsiasi inefficienza e mancanza di equità del sistema (si
prendano le questioni scandalose delle liste d’attesa e della legislazione e
gestione della cosiddetta libera professione intramoenia) e l’ormai totale
certezza dell’inutilità di qualsiasi forma di segnalazione o di protesta presso
una classe politica che si è finora rivelata carente di una adeguata cultura di
governo.
Servirebbe, insomma, un colpo di timone deciso per
ricollocare il Servizio Sanitario Nazionale nell’ambito
pubblico, ridando al personale la consapevolezza del proprio ruolo e l’orgoglio
di essere il protagonista- depositario del diritto alla tutela della salute e
riconoscendo al cittadino servizi e prestazioni
fornite in modo equo e veloce.
Come sempre le motivazioni migliori per riprendere
–con gli opportuni aggiornamenti- il cammino
intrapreso nel nostro Paese più di venticinque anni fa, vengono dagli Stati
Uniti.
Quando in una provincia statunitense in soli due
anni 160 medici si sono ritirati o hanno cambiato
lavoro per l’impossibilità di sostenere le spese assicurative, quando oggi
nell’intero stato della Florida solo 4 (quattro) neurochirurghi sono disposti a
operare in emergenza, quando il 50% dei casi di bancarotta (per un totale di
circa 2 milioni di cittadini l’anno, per la maggior parte appartenenti alla
classe media, con assicurazioni private) è dovuto ai conti delle spese
sanitarie, quando infine il presidente Bush è costretto a dichiarare che
“bisogna limitare le cause dei pazienti e stabilire un tetto ai risarcimenti
per malasanità”, significa che il cosiddetto sistema americano, oltre a non tutelare
la salute di tutti i cittadini, non riesce a rispondere positivamente
alle sollecitazioni di coloro che ha voluto culturalmente chiamare “clienti”.
Domanda: perché dovremmo emularlo?
Roberto Buttura