LA VERA DOMANDA

 

Mai come in questi anni forti e motivati sono stati i timori di una decadenza senza ritorno del Servizio sanitario nazionale e quindi della permanenza di un diritto nominale senza la possibilità di convertirlo in diritto esigibile in termini qualitativi e quantitativi.

Ancora in questi giorni, voci autorevoli (si legga l’articolo “Federalismo e salute” di Roberto Turno giornalista certamente non sospettabile di eccessive simpatie per una liberalizzazione o privatizzazione sanitaria) continuano a paventare il rischio di una prossima insostenibilità economica del servizio pubblico. I cosiddetti esperti, infatti, eseguiti i loro bravi calcoli assicurano che in percentuale di Pil la spesa sanitaria pubblica italiana è cresciuta dal 1996 al 2004 dal 5,2 al 6,3 e che in prospettiva questa tendenza può ulteriormente aumentare. Generalmente non viene spiegato su quali basi ciò avverrà, ma in ogni caso, sempre i cosiddetti esperti hanno la ricetta pronta: trasferire dal pubblico al privato fette sempre più grosse della spesa sanitaria.

Anche su questo versante nebbia fitta su come ciò possa avvenire, a meno che si consideri il cittadino un ottuso beota capace di ingoiare qualsiasi panzana gli viene propinata con aria tecnicamente professorale. Si dà il caso che il Servizio sanitario nazionale e le sue articolazioni residenziali e territoriali non corrispondano ad una azienda che produce automobili nelle sue fabbriche e le vende attraverso i suoi concessionari, ma una realtà ritenuta dalla grande maggioranza della popolazione presidio fondamentale per la tutela di tutti i cittadini.   

La cosa strana o forse no è rappresentata dal fatto che nessuno dei soloni si pone la vera domanda e cioè se l’aumento percentuale della spesa ha determinato un aumento qualitativo in termini di organizzazione e prestazioni fornite ai cittadini.

Ci sono invece alcuni segnali non indifferenti che vengono dalle stesse autorità pubbliche preposte e quindi in questo senso più che allarmanti.

Le cosiddette “liste d’attesa”, ad esempio, denunciate da ministro e assessori regionali alla salute rappresentano la negazione del diritto alla tutela e la spia di un malfunzionamento e di una disorganizzazione del sistema intollerabili.

Naturalmente, alieni dalla demagogia e dal populismo imperanti, non si chiede che la prescrizione del giorno prima di un esame o di una visita venga onorata il giorno dopo, ma anche e in particolar modo per le prestazioni programmate dovrebbe esistere un termine ragionevole e concreto per l’esecuzione e non la vergognosa pratica odierna che oltre al danno (c’è posto fra sei mesi), aggiunge la beffa (ma se vuole, pagando, il dottore –lo stesso(n.d.a.)- la visita domani o al più tra tra quattro giorni.

Questo andazzo responsabile della decadenza etica, morale e organizzativa del servizio pubblico, dispiace ancora una volta dirlo, è stato frutto di decisioni politiche che debbono essere radicalmente modificate.

Perché è inaccettabile che ad un aumento considerevole e in termini relativi e assoluti della spesa sanitaria (in assenza peraltro di fortissime innovazioni tecnologiche e di riforme generali del sistema sanitario) corrisponda una maggiore difficoltà o impossibilità del servizio pubblico a rispondere in tempi e modi adeguati ai bisogni di salute del cittadino.

O no?

 

Roberto Buttura

 

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