Federalismo e salute

 

Idee, progetti, modelli futuribili, ma reali, concreti, robusti, che possano camminare sulle proprie gambe. E con il massimo di condivisione possibile, magari: la fucina della Sanità, quella che cerca di trovare soluzioni per ottimizzare assistenza e risorse, è sempre in moto.

Una ricerca che forse è un’utopia. Forse una scommessa. Ma una scommessa che vale la pena di tentare. Anzi, che è indispensabile tentare, se vogliamo davvero salvare il salvabile dell’universalità del Servizio sanitario nazionale.

I rischi, i contorni, la vischiosità del presente li conosciamo tutti quanti molto bene.

Dunque, mi tocca parlare di numeri. Che, presi per sé, sono sempre aridi. I numeri non sono la storia. Ma la storia –di ieri, di oggi, di domani- è fatta anche di numeri. Che ci aiutano quanto meno a comprenderla, magari per prevenire gli errori.

L’Evidence dei numeri, insomma può darci una mano. Come l’Ebm.

I determinanti con cui fare i conti, credo, sono almeno tre:

Insomma, tre argomenti di fondo che ci pongono l’interrogativo al quale tutte le società strutturate secondo il modello del Welfare (ma non solo loro, pensiamo agli Usa) sono necessariamente poste davanti alla necessità di dare risposte. E di darle tempestivamente, come ci ha più volte e anche recentemente raccomandato la Ue. Dunque il finanziamento.

Nel 1998 il finanziamento del Fondo sanitario era di 55 miliardi di euro, nel 2005 sarà di 90 miliardi. Come dire che in otto anni la dotazione finanziaria è cresciuta del 70 per cento. Con un rapporto sul Pil passato da 5,13 a 6,3 per cento. Un aumento considerevolissimo. Ma evidentemente ancora insufficiente. La spesa vera –quella più o meno certificata- è stata ogni anno in media superiore di oltre 4 miliardi. Quasi 30 miliardi in più in sette anni, escludendo il 2005. A tutto ciò, poi, va aggiunta la spesa privata pagata direttamente dai cittadini: altri 25 miliardi nel 2004, si stima. Come dire che nel 2005 la spesa sanitaria totale sarà di 117/118 miliardi di euro.

Ma con quali risultati –oltre che in termini di salute- sul piano del riequilibrio Nord-Sud e di parità d’accesso tra le diverse aree del Paese?

Non sono assolutamente un demonizzatore del Servizio pubblico, la cui universalità deve restare una stella polare. E non giudico certo sempre nefande le strade aperte dalla riforma del 1992, che ha spalancato le porte alla responsabilizzazione in sede locale della spesa e dell’assistenza, cominciando a spazzar via ripiani a piè di lista e spesso dubbie, o inesistenti, capacità gestionali. Facendolo, magari, faticosamente e nel segno di una malintesa aziendalizzazione ragionieristica. Con i Drg usati talvolta come clava per gli assistiti o come strumento di entrata improprio per le aziende sanitarie. Con prestazioni ancora inappropriate e sesso evitabili: non a caso si stimano 3-4 miliardi di spese evitabili. Col personale gestito e organizzato non sempre al meglio e all’altezza delle necessità, anche di quelle che un corpo di professionisti di alto livello meriterebbe.

Certo, le sacche, vorrei dire, non semplicemente di spreco, ma di gestioni non razionali, esistono eccome. Classico esempio è il rapporto ospedale-territorio. Ho riletto recentemente il dibattito accesissimo che si aprì all’epoca della riforma del 1978. Altri tempi, altre volte da compiere, certo. Peccato che già allora il nodo del mitico circuito perfetto, tra ospedale e territorio fosse al centro dell’attenzione. Perché così poco è stato fatto da allora? Perché, e chi ha remato contro? Ecco, anche di questo occorre tenere conto.

Luci e ombre, insomma. E certo quel gap infrastrutturale e di offerta di servizi Nord-Sud è tutt’altro che risolto. Ce lo confermano quanto meno i dati della mobilità: sono 900mila pazienti che emigrano per così dire, per cure dalla propria Regione. E le Regioni del Sud presentano i dati più eclatanti: 195mila in Campania, 155mila in Sicilia, 152mila in Calabria, 59mila in Basilicata. L’intero Sud ha un saldo negativo di 650mila cittadini nel triennio 2000-2002. Stesso primato negativo vanta, per così dire, il Mezzogiorno per i disavanzi di spesa. Per non dire della difformità nell’offerta di servizi pubblici, caratterizzata non a caso dal Lazio in giù dalla presenza riequilibratrice del privato.

Un quadro, questo, che il complicato e confusissimo avvio del federalismo, con la legge del 2001, non ha davvero contribuito a rendere più chiaro. E in che prospettiva non può che aprire altri interrogativi davanti all’eventuale pieno dispiegarsi di una devolution totale. Tanto più a fronte delle pesanti incertezze che incombono sulla costruzione del federalismo fiscale. Incertezze finanziarie, lamentano le Regioni del Sud che già in questi anni sostengono di avere dovuto subire pesanti penalizzazioni nella distribuzione delle risorse. Incertezze finanziarie che però temono anche le Regioni del Nord, e in parte del Centro: le cosiddette Regioni “ricche” che, a fronte di responsabilità precise a loro carico, temono di perdere quote di finanziamento per poter mantenere alti, e anzi migliorare, i propri livelli di produzione e di tutela della salute. Senza trascurare che proprio le Regioni ricche contribuiscono finanziariamente di più: la Lombardia ha calcolato che su 9.434 euro per cittadino di contributi versati, gliene tornano appena 1.750. torna cioè il 18,5%, al contrario alla Calabria torna il 56,3 per cento. Anche di questo si dovrebbe parlare, credo, insieme al federalismo fiscale.

Tutto ciò, va detto, mentre sono tenute alte le bandiere della solidarietà e del riequilibrio strutturale e finanziario.

Che si rischi solo di parlare di bandiere al vento, ma non di fatti concreti?

Ecco, unità e uguaglianza di accesso –che non esistevano prima, sia chiaro, della prima bozza, quella attuale, di federalismo- sono ancora oggi parole al vento. Farei un altro esempio: perché nel Lazio devo pagare il ticket e mio fratello, in Sardegna, no?

Per concludere sul finanziamento. E’ evidente che se la spesa pubblica finale, ogni anno, non tiene il passo col finanziamento iniziale, troppi conti ancora non tornano. Si è detto degli aspetti organizzativi, strutturali e gestionali. Delle cose, dei mezzi, insomma, e delle persone. Perché poi le risorse umane, il loro modo di essere dentro il sistema, sono la chiave di volta del cambiamento e delle possibilità, per il sistema pubblico, di restare uno, indivisibile, equo, solidale e sostenibile.

Ma se gli attuali modelli di finanziamento pubblico non reggono la crescita esponenziale della domanda di salute, anche di salutismo, diciamolo, non si può restare fermi nel dogma assoluto. Evidentemente servono, e presto, nuove e alternative forme di copertura finanziaria. Senza per questo scassare il servizio pubblico. Anzi, restituendogli la possibilità di rimodellarsi e di essere all’altezza delle sfide e della domanda che arriva dalla popolazione.

Proprio la fotografia e la composizione della società, ci portano al secondo determinante: l’invecchiamento della popolazione. Che conferma l’insostenibilità prossima ventura del sistema. Dal versante del finanziamento a quello dei modelli organizzativi.

Secondo calcoli appena realizzati dall’Assr (Agenzia sanitaria dei servizi regionali) la popolazione oltre i 65 anni, che rappresenta oggi il 19% degli italiani, consuma il 42% del totale del Fondo sanitario: 36,2 miliardi. Una quota destinata a crescere esponenzialmente nel futuro non lontano.

Sia chiaro: il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione è comune in tutte le società cosiddette avanzate. Ma sappiamo che l’Italia vanta un primato nel primato.

E sia chiaro, ancora: invecchiare è anche segno di possibilità di cura, di servizi, di un sistema che dà risposte.

Il punto è come affrontare, nel prossimo futuro, vuoi i costi crescenti, vuoi i modelli organizzativi che l’invecchiamento pone: cure domiciliari, assistenza residenziale e via elencando cure, tecnologie, farmaci e tutti i possibili modelli di assistenza.

In altri termini, l’impatto dell’invecchiamento della popolazione è destinato a creare una pressione fortissima sui sistemi politici, produttivi, economici e sui sistemi di produzione delle società avanzate, come di quelle in via di sviluppo. Analisi e dati ci sono stati ricordati appena un mese fa al convegno sull’Ageing society a Rimini. E i dati dicono che dal 2000, a causa del calo della fertilità, sono oggi 68 i Paesi in cui le nascite non compensano i decessi. I tassi di natalità in Europa sono in calo dai primi anni Sessanta, con Germania e Italia più in difficoltà. Da noi, il tasso di natalità è passato dall’11,7 per mille abitanti del 1980 al 9,3 per mille abitanti nel 2002.

E ancora: in Europa oggi più del 20% della popolazione supera i 60 anni di età. Una quota che raddoppierà entro il 2050. dal 2030 metà della popolazione dell’Europa Occidentale avrà più di 50 anni, con una speranza di vita di altri 40 anni, e un quarto della popolazione avrà più di 65 anni.

In Italia gli ultracentenari aumenteranno di 25 anni: dal 1702 del 2002 diventeranno 200mila circa. Ricordiamo ancora che in Italia negli ultimi 20 anni la proporzione di persone oltre i 65 anni è passata dal 13,1 al 18,6 per cento. E la speranza di vita ha raggiunto quasi 80 anni.

Si vive più a lungo, ma aumentano le disabilità e le malattie croniche. Si calcola che le cronicità, nel 2010, riguarderanno 12 milioni di over-60 anni. Senza dimenticare, lo dico non come una semplice sottolineatura, l’effetto dell’invecchiamento sul sistema pensionistico.

Davanti a tutto questo, ricorda un’analisi realizzata da Spi Cgil e Fondazione Brodolini, la copertura dei bisogni è assolutamente inadeguata. Con un gap fortissimo tra domanda e offerta e con il Sud che, ancora una volta, benché più giovane, è fanalino di coda. Maglia nera nella copertura dei servizi domiciliari e residenziali sono: la Calabria con un livello di copertura dell’1%, la Campania con l’1,3 e la Sicilia con l’1,5 per cento.

E’ evidente che l’impatto che l’Ageing society avrà dunque sulla quantità e sulle modalità di allocazione delle risorse. E altrettanto evidente è dunque la necessità, direi l’obbligo, di trovare soluzioni e modelli organizzativi, di accesso ai servizi, alle prestazioni e alle cure, che oggi mancano.

Terzo determinante: l’accesso alle tecnologie. Che devono misurarsi a loro volta con finanziamenti che faticano a tenere il passo del bisogno di cure.

Le tecnologie hanno un costo: è chiaro. Ed è altrettanto chiaro che servono investimenti all’altezza. Che serve lo stimolo per l’igh tech e per la ricerca. Serve la benzina per far girare il motore. E serve un’industria di settore all’altezza, naturalmente dentro tutti i paletti del buon sistema di governo. Senza imbrogli, insomma.

E invece, che accade? Fermiamoci solo ad uno spaccato, ma significativo. Secondo un recente studio Anie/Airm/Aimn (cioè l’associazione di produttori elettromedicali, la società italiana di radiologia e l’associazione italiana di medicina nucleare e imaging molecolare) oggi le spese per l’acquisto di tecnologie radiodiagnostiche incidono appena per lo 0’4% del totale della spesa Ssn. Assai meno della metà rispetto ai nostri principali partner europei.

E intanto, che accade? Come per gli ospedali, si verifica un grave fenomeno di invecchiamento delle apparecchiature: parliamo di telecomandati, diagnostica radiologica, mammografi, gamma camere, angiografi. Evidente l’effetto-rischio di macchine obsolete. Ed evidente, altra faccia della medaglia, l’effetto di non uniformità nell’accesso alle cure per quelle popolazioni che non hanno a disposizione le macchine d’avanguardia. Quasi inutile aggiungere che, anche in questo caso, a pagare lo scotto principale è il Mezzogiorno d’Italia.

Un buon federalismo, credo, dovrà occuparsi anche di colmare questo gap. E il sistema, per essere universalistico, dovrà farsi carico di trovare fonti di finanziamento alternative per mantenere un servizio all’altezza.

E’ del resto in questo quadro che l’industria, quando è sana, deve muoversi e attrezzarsi. Ance per affrontare i rischi del mercato, della propria programmazione e della ricerca.

Ma se i fornitori sono rimborsati con 300 giorni in media di ritardo, quando va bene, come è possibile? Per non dire dei 500 giorni di ritardi in Campania e in Abruzzo.

Perché quello della politica industriale biomedica e della ricerca –finalmente lo abbiamo compreso tutti- è l’altro capitolo tutto da scrivere.

Dove, ancora una volta, serve il coraggio delle scelte. Dal sistema-ricerca nel suo complesso. Fino agli interventi particolari. Sulla risorsa principe, i ricercatori. Sull’organizzazione e sul rapporto continuo e sistematico tra i vari enti e organismi deputati alla ricerca. Per arrivare a un finanziamento della ricerca di base che non sia a singhiozzo, ma di lunga gittata.

I continui sviluppi tecnologici e scientifici che caratterizzano la nostra epoca e che ancora più caratterizzeranno il futuro. L’accelerazione poderosa del cambiamento, con progressiva riduzione dei cicli di vita dei prodotti, delle competenze e delle conoscenze. La globalizzazione e l’internazionalizzazione dei mercati.

Ecco, queste sono le sfide. E non c’è più tempo da perdere.

Credo che non si sia fatto e non si stia facendo abbastanza per preparare il domani della Sanità, della nostra Salute collettiva. E la politica deve esserne cosciente.

Fuori dagli schemi e dall’eccesso di dogmi. Col coraggio delle idee e con la concretezza delle azioni. Con tutto il carico di innovazione necessaria ma nel rispetto dell’universalità dei diritti, soprattutto dei più fragili, per fattori di salute, sociali ed economici. Senza pasticci o orecchie sensibili solo agli interessi di parte. Levando lo sguardo al Welfare in generale.

Perché la Salute è intimamente legata al sociale, alla previdenza, al mercato del Lavoro, all’Istruzione, alla Formazione. Alla ricerca e al sistema produttivo.

Solo volando alto, credo, potremmo dire che non stiamo discutendo del sesso degli angeli mentre Costantinopoli crolla.

 

Roberto Turno

 

 

I quaderni di Accademia luglio 2005 (supplemento Il sole24sanità)

 

PRIMA PAGINA