Un medico e un’economista sostengono i vantaggi del sistema sanitario nazionale
Pubblico è meglio
La sanità pubblica è l’unica strada percorribile per ottenere prestazioni diffuse e efficienti per l’intera popolazione
Recensione
Emanuela Sanna Società Salute Diritti - web site
Lunedì 9 febbraio il 90% dei medici ha scioperato virtualmente e non per protestare per il mancato rinnovo del contratto (scaduto nel 2001), per il non corrisposto adeguamento biennale all’inflazione programmata, ma anche e soprattutto contro il governo che non ha ancora erogato i 5 miliardi di euro concordati con le regioni, impedendo il mantenimento dei livelli essenziali di assistenza e mettendo a repentaglio il servizio sanitario nazionale, contro la devolution che sta portando alla frantumazione del sistema, cancellando il principio della solidarietà e il diritto a una sanità uguale per tutti. Per l’8 e il 9 marzo sono previsti altri due giorni di agitazione, mentre a aprile dovrebbe tenersi una manifestazione nazionale a sostegno del servizio pubblico. Una protesta, dunque, che non è solo dovuta a interessi personali di categoria o a questioni meramente economiche, ma che assume un significato ben più profondo. I medici, e tutte le sigle sindacali che li rappresentano, si sono resi conto che, a forza di tagli, la sanità pubblica rischia di andare al collasso e sono in molti a sospettare che lo scopo finale del governo sia proprio questo: rendere il servizio talmente povero e inefficiente da spingere il cittadino a rivolgersi a strutture private, attraverso un massiccio ricorso alle assicurazioni. Il modello americano, tanto caro a Berlusconi, di una sanità statale ridotta all’osso alla quale si rivolgono solo i poverissimi potrebbe essere ben presto una realtà. Eppure, e proprio l’esperienza statunitense lo dimostra, ci sono settori in cui la presenza dello Stato è indispensabile a garantire non solo equità e giustizia sociale, ma anche efficacia e garanzie. La sanità è uno di quelli e proprio mentre il modello italiano viene attaccato da più parti e spesso è oggetto di lamentele da parte della cittadinanza, un medico, Paolo Vineis, e un’economista, Nerina Dirindin, pubblicano un documentatissimo pamphlet a sostegno della medicina pubblica, volto a sfatare molti luoghi comuni e a convincere, dati alla mano, che si tratta dell’unica strada percorribile per ottenere prestazioni diffuse e efficienti per l’intera popolazione.
Il libro parte da una constatazione che, piaccia o no, è un dato di fatto ineluttabile: la spesa sanitaria è destinata non solo a restare elevata, ma anche ad aumentare ulteriormente con il passare degli anni. Un fatto dovuto non tanto all’invecchiamento della popolazione (una popolazione che invecchia è anche una popolazione che ha bisogno di cure mediche più avanti negli anni), quanto ai costi sempre più elevati della ricerca, alle nuove scoperte in campo tecnologico, all’uso di macchinari sempre più sofisticati e anche al ricorso sempre più ampio dei cittadini che, in precedenza, per mancanza di cultura e per ignoranza si rivolgevano al medico solo raramente. Non solo: la medicina è forse l’unico campo in cui l’aumento di tecnologia non porta minore occupazione, ma anzi la scoperta e l’introduzione di nuovi macchinari è sempre accompagnata da nuove figure professionali altamente specializzate. Quanti parlano di riduzione della spesa sanitaria e di tagli, quindi, non sanno ciò che dicono: un sistema sanitario moderno e efficiente ha bisogno di risorse sempre più ampie e, non è detto che questo sia un male. Costi elevati, infatti, significano una maggiore attenzione alla salute, maggiori aspettative nella lunghezza della vita media, maggiore dignità e attenzione verso i malati. Il dato comune da sfatare, invece, è quello di una sanità pubblica italiana inefficiente e spendacciona. Il nostro servizio sanitario nazionale, infatti, nonostante le critiche, è stato collocato dall’Organizzazione mondiale della sanità ai primi posti nella graduatoria mondiale sia sul piano della tutela della salute, sia su quello dei costi complessivamente sostenuti. La spesa sanitaria italiana risulta essere di poco inferiore a quella media dei paesi con analogo reddito pro capite, “in particolare spendiamo l’8,1% del Pil, contro il 9,5% della Francia e il 10,6% della Germania.
Questo non vuol dire, secondo gli autori, che non si possano distribuire meglio queste risorse, eliminando ad esempio il massiccio ricorso ad analisi costosissime e di dubbia efficacia, prescritte spesso senza alcuna necessità, o la distribuzione gratuita di alcuni farmaci la cui efficacia è tutta da dimostrare (il caso della cura Di Bella ne è stato l’esempio più eclatante), o attraverso l’istituzione di un’agenzia di monitoraggio esterna che valuti l’operato del Ssn (possibilmente senza la pressione della case farmaceutiche) e fornisca delle linee guida.
Nettamente negative, invece, sarebbero le conseguenze di una dismissione da parte dello Stato della sanità a favore dei privati. L’attuale sistema, infatti, ha il privilegio di garantire a tutti decorosi livelli di assistenza, senza effettuare selezioni. La spinta a lasciare il cittadino libero di scegliere e a invogliare i ceti più ricchi verso un sistema assicurativo privato, rinunciando al finanziamento attraverso la fiscalità, taglierebbe fuori una parte consistente di popolazione che riceverebbe cure non in base agli effettivi bisogni, ma in base ai contributi erogati. Non solo le assicurazioni private escludono un gran numero di persone considerate a “rischio”, e un sistema sanitario del tutto privatizzato e basato sul profitto non avrebbe alcun interesse economico a prescrivere cure più efficaci, ma si orienterebbe verso le più costose, senza incentivare in alcun modo la prevenzione, penalizzando quindi gli stessi cittadini che per il loro elevato reddito possono accedervi. Per gli altri, quella parte di popolazione (casalinghe, disoccupati e pensionati), il cui sistema sanitario viene “pagato” dalla tassazione del 34% delle persone più ricche, resterebbe un sistema sanitario ridotto all’osso, privo di garanzie e efficienza. Stesso discorso per quanto riguarda l’abuso del federalismo, o l’esclusivo ricorso alle assicurazioni di categoria, che generano inevitabilmente disuguaglianze, creando cittadini di serie A o di serie B, colpevoli soltanto di svolgere una professione invece di un’altra o di vivere a Palermo invece che a Torino.