MOORE ALL’ATTACCO

Il regista irrompe nella politica, assicurazioni terrorizzate

 

   Camice da chirurgo, mascherina sterile, solito cappellino da basket, Michael Moore guarda, ironico, il pubblico che entra nel cinema, mentre si infila un guanto di lattice: i ragazzi «radical » che sciamano verso la sala sulla Broadway per l'anteprima di Sicko, sghignazzano davanti al manifesto e simettono in fila per il biglietto. Un «poster» che non promette niente di buono per lobbisti, comunicatori e uomini di marketing dell'industria farmaceutica e delle assicurazioni sanitarie. Sono arrivati ben mimetizzati e sanno che il bisturi del regista è per loro. Il film, come sempre con Moore, è un atto di denuncia efficace, ma anche demagogico.

   Fa a pezzi le assicurazioni americane di cui mostra l'ottusità burocratica. Espone i casi — comunissimi in America — di persone che si vedono negare un trattamento perché troppo costoso o perché accusate di aver nascosto le loro patologie al momento di sottoscrivere la polizza. Commuove e indigna, ma il suo è un racconto totalmente unilaterale — la sanità statale europea e canadese è il paradiso, quella privata americana un inferno senza ritorno— che scivola nel grottesco quando, nel finale, vuole dimostrare che perfino a Cuba la gente viene curata meglio che negli Usa. La pellicola, presentata un mese fa a Cannes, tratta una materia difficile: le storie sono tristi, il film è lungo e a tratti noioso.

   Tra vicende di chemioterapia negata e soccorritori di «Ground Zero» venerati come eroi cinque anni fa, ma abbandonati al loro destino una volta colpiti da fibrosi polmonare per i fumi respirati tra le macerie, di spunti per la satira graffiante di Moore, quella di Fahrenheit 9/11, ce ne sono pochi. Ma Sicko non sarà un «flop» perché, più che come semplice film, è stato concepito come il veicolo di un movimento d'opinione che il regista ha già cominciato a costruire con l'appoggio dei fratelli Weinstein, gli ex boss della Miramax che, venduti i celebri «studios », hanno ricominciato da zero e ora sono i produttori di Moore.

   A Washington sono già iniziate le proiezioni private offerte a politici, lobbisti e blogger, mentre se ne sta preparando una anche per gli analisti finanziari di Wall Street che si occupano di assicurazioni e industrie del farmaco. Due giorni fa Moore è stato acclamato da mille infermiere che hanno visto il film in un teatro di Sacramento. Subito dopo la loro organizzazione, la California Nurses Association, ha lanciato una campagna nazionale per spingere un milione di paramedici a vedere il film.

   E per il suo lancio vero e proprio — sarà proiettato dal 29 giugno in ben tremila sale americane—le cose sono state fatte in grande. «Healthcare- Now!», un'organizzazione che si batte per una sanità pubblica «universale» (oggi 47 milioni di americani non hanno alcuna copertura), sarà davanti a tutte le sale con i suoi tavoli e una petizione da firmare, mentre anche gli attivisti radicali di «Moveon.org» e quelli di «Physicians for a National Health Program» si stanno mobilitando per promuovere Sicko. Scende in campo anche Oprah Winfrey che dedica una puntata del suo programma tv alla crisi della sanità. I gruppi assicurativi, abituati a macinare centinaia di miliardi di dollari di profitti (la sanità Usa è un'industria da 2.100 miliardi di dollari, il 16 per cento del Pil americano: come il reddito nazionale della Francia e della Spagna messi insieme), sono terrorizzati.

   Ai giornali che chiedono loro di replicare alle accuse di Moore per ora oppongono solo «no comment». I produttori del film si aspettano un'offensiva legale e, convinti che la miglior difesa sia l'attacco, hanno già messo in campo un'agguerrita squadra di avvocati e comunicatori che si preparano a inondare i giornali di documenti «compromettenti» ottenuti dai pazienti e anche da molti dipendenti di queste società. Moore, che l'altra sera si è presentato a sorpresa alla proiezione di New York, ha ringraziato il pubblico, ha fatto autografi su molti biglietti d'ingresso e ha invitato tutti a partecipare alla campagna per una riforma radicale della sanità, stavolta gioca a fare il cineasta misurato: nessun manager messo alla berlina come il capo della General Motors in Roger&Me, nessun politico ridicolizzato come Bush o Wolfowitz in Fahrenheit.

   Lo stesso Moore confessa di essersi reso conto che in passato, maramaldeggiando, è riuscito a vincere l'Oscar per i documentari o la Palma d'Oro a Cannes, ma non ha inciso sulla realtà: «Irrompere nell'ufficio dell'amministratore delegato della GM non è servito spingere l'azienda a fare auto migliori, presentarsi a casa di Charlton Heston (celebre scena di Bowling for Columbine con l'attore che al tempo era presidente della Nra, la lobby delle armi, ndr) non ha ridotto le sparatorie nelle scuole». E Bush, sbeffeggiato nel 2004 in Fahrenheit, pochi mesi dopo è stato rieletto presidente.

   Stavolta, puntando più sulla sostanza del problema che sugli effetti spettacolari, Moore spera di giocare un ruolo politico. Difficilmente la sua ricetta radicale avrà successo: nella sanità il mercato non è mai decollato e le assicurazioni funzionano male, maazzerare un sistema di queste dimensioni non è possibile. Mai come oggi, però, le condizioni sono state propizie per una riforma profonda, visto che non solo i pazienti sono sempre più furibondi, ma anche i datori di lavoro, che fin qui hanno acquistato le polizze sanitarie per i loro dipendenti, spesso non ce la fanno a pagare un conto divenuto salatissimo. Dopo l'Iraq, la sanità è il tema più «gettonato » della campagna elettorale.

   Tutti i candidati democratici hanno in programma una revisione del sistema, ma nessuno — nemmeno Hillary Clinton, lodata nel film per il suo tentativo di riforma del 1993 — propone soluzioni radicali. Sicko sarà un problema anche per loro: scegliendo la ricetta della medicina «socializzata» demolirebbero un pezzo dell'economia americana e si alienerebbero le simpatie dei moderati; limitandosi a prevedere un sistema universale garantito dal pubblico, ma comunque gestito dalle assicurazioni, deluderanno i fautori di un intervento radicale che ormai sono un esercito. E che, ora, hanno anche un portabandiera.

 

Massimo Gaggi

 

Corriere della Sera di domenica 24 giugno 2007

 

PRIMA PAGINA