I NERI DELL’ALABAMA
RICONQUISTANO IL «TRAGHETTO DELLA LIBERTA’»
Nettie Young — una delle
poche persone del villaggio a non chiamarsi Pettway,
il cognome del proprietario, a metà dell’800, della
piantagione di cotone di Gee’s Bend
e dei suoi schiavi —ricorda ancora la scena: era il 1962 e, dopo una visita di Martin Luther King
che li aveva invitati a lottare per i loro diritti civili, gli abitanti del
paese cominciarono a scendere a Camden, la città più
vicina, per manifestare e chiedere il diritto di voto per i neri. Ma un giorno
il traghetto col quale attraversavano il fiume Alabama — una zattera legata a un cavo teso tra i due argini — sparì nel nulla:
volatilizzato. Per la gente di Gee’s Bend, una comunità poverissima composta da
700 discendenti di quegli schiavi che vive in una terra circondata su tre lati
da un’ansa del fiume, fu un colpo durissimo. Da allora andare a Camden per fare la spesa, lavorare, vedere un medico,
mandare i figli a scuola, ha imposto un lungo giro: un’ora e mezzo di auto.
Nessuno
ha mai dato spiegazioni per la soppressione del servizio, ma in paese sono
tutti convinti che sia stata una scelta politica delle autorità di Camden, decise a tenere i manifestanti neri lontano dalla
città. Qualche anno dopo arrivò il diritto di voto per tutti e, alla Casa
Bianca, il presidente Lyndon Johnson
firmò la legge sulla piena integrazione dei neri. Ma a
Gee’s Bend il traghetto non
è
Fino a qualche mese fa, quando un traghetto — stavolta un battello a
motore — è tornato a collegare le due rive del fiume. La gente del paese pensa che il
merito sia delle quilters, le 40 donne di Gee’s Bend che ricamano
tessuti spessi come una trapunta con una tecnica patchwork
che riproduce motivi africani. Splendidi lavori di artigianato
dai colori sgargianti che qui erano considerati comuni oggetti di casa. Nettie, che a quasi 90 anni è la decana delle tessitrici,
ricorda che i quilt venivano
usati come coperte e tappeti e venivano tagliati a strisce per farne pannolini
quando nasceva un bimbo. Negli inverni più freddi sono stati perfino bruciati
nel fuoco, quando la legna non bastava. Poi, dieci anni fa, arrivò Bill Arnett, un critico d’arte di Atlanta, che cominciò a parlare dei quilt
di Gee’s Bend come di una
straordinaria forma di folk art. La prima esposizione, a Houston nel 2002, ebbe
un successo enorme. Gli «arazzi» dell’Alabama, definiti «jazz sotto forma di
tessuto», finirono ben presto al «Whitney
Museum of American Art» di New York.
Da allora
le quilters si dividono tra la vita bucolica nel
villaggio e le «tournee» in giro per il mondo. L’anno scorso 10 dei loro lavori
più belli sono finiti sui francobolli delle Poste americane. «Ma non credo che il merito sia nostro; non solo, almeno »,
si schermisce Maryann Pettway,
la manager della cooperativa che gestisce produzione e vendita dei quilt. «La decisione di ripristinare il servizio è di dieci
anni fa. Poi ci sono stati problemi e difficoltà di ogni
tipo, ma non credo che l’abbiano fatto apposta». Beh, il ritardo non sarà stato voluto, ma le autorità locali sono state quantomeno
sprovvedute: quando il Congresso stanziò 695 mila dollari per un nuovo ferry,
l’Alabama Department of Transportation
affidò la sua costruzione a un produttore di barche in fibra di vetro di
Montgomery che non aveva mai visto un traghetto in vita sua. Per metterne
insieme uno impiegò anni, i costi triplicarono e, al primo viaggio, il battello
si incagliò nei fondali fangosi del fiume:
Ma nel
frattempo la campagna di stampa di Hollis Curl, l’editore di Progressive Era, il settimanale di Camden, aveva convinto il nuovo governatore dell’Alabama
Bob Riley — repubblicano ma sensibile alle richieste
delle contee nere a maggioranza democratica — a
inserire il traghetto di Gee’s Bend
tra le sue priorità. Affidato a una società
specializzata, in poco tempo il battello è stato messo in condizione di
navigare. Sei mesi fa quello che in paese è stato ribattezzato il Freedom Ferry (traghetto della
libertà), ha cominciato a fare la spola tra le due rive del fiume. Gli
ingredienti per una storia a lieto fine non mancano:
una ex piantagione di cotone popolata da poverissimi discendenti di schiavi
resi improvvisamente benestanti dai quilt venduti a
migliaia di dollari ai collezionisti americani. Le case
popolari volute dal presidente Roosevelt, che visitò
questo villaggio poverissimo durante la Depressione degli anni ’30 del secolo
scorso, dalle quali ora spuntano condizionatori d’aria e antenne paraboliche.
Un
governatore repubblicano «buonista» e perfino un
«segregazionista pentito»: Hollis Curl
(oggi ha 72 anni) arrivò a Camden negli anni ’60, in piena battaglia per i diritti civili. E, dice lui stesso, «ero un razzista, come tutti gli altri
cittadini». Eletto giudice della contea, un giorno fece imprigionare 410 neri,
rei di aver iniziato una marcia di protesta non autorizzata. Poi, negli anni
’90, la conversione: «Capii che la segregazione non solo
è immorale: è anche il suicidio economico della contea». E,
per riscattarsi, iniziò la campagna per il ripristino del traghetto. Storia a lieto fine, dunque? Fino a un certo
punto: lo Stato dell’Alabama finanzia la gestione del ferry per un anno. Poi,
il servizio dovrà stare economicamente in piedi da solo. E i tre dollari per
autovettura pagati dai residenti — avverte il
tesoriere dello Stato — non bastano: «L’unica speranza è lo sviluppo del
turismo». Nel centro per anziani che funziona anche da
asilo-nido e da fabbrica dei quilt, alcune donne
avanti negli anni inchiodano il tessuto da ricamare su assi di legno.
Raccontano
le loro storie di discendenti di schiavi deportati dall’Africa e che nel 1820
furono condotti a piedi dal North Carolina al fiume
Alabama da Joseph Gee per
coltivare una piantagione. Quei campi — poi ceduti, con gli schiavi, alla
famiglia Pettway — non esistono più. Nonostante la sua celebrità, il villaggio rimane immerso nel
suo isolamento bucolico: tutti si conoscono, le porte delle case sono sempre
aperte. Il magazzino nel quale sono ammassati i quilt
è protetto solo da un lucchetto che, da noi, non spaventerebbe nemmeno un ladro
di ciclomotori. Il ritorno del «traghetto della libertà» inorgoglisce queste
donne. Il rischio di perderlo di nuovo le preoccupa, ma non le fa indignare: il
villaggio tornerebbe ai suoi lunghi giri in autocorriera. E qualcuno — i pochi
abitanti bianchi del luogo — sarebbe addirittura
contento.
No, non
sono dei reazionari né dei segregazionisti: sono tre famiglie di ambientalisti amanti del multiculturalismo
che, arrivati all’età della pensione, hanno deciso di ritirarsi in queste terre
verdissime e isolate. Gente che, ormai abituata ad ascoltare solo il vento tra
gli alberi e la voce del fiume, ora teme, più di ogni
altra cosa, il frastuono del turismo.
Massimo Gaggi
Corriere
della Sera di martedì 8 maggio 2007