I NERI DELL’ALABAMA RICONQUISTANO IL «TRAGHETTO DELLA LIBERTA’»


Nettie Young — una delle poche persone del villaggio a non chiamarsi Pettway, il cognome del proprietario, a metà dell’800, della piantagione di cotone di Gee’s Bend e dei suoi schiavi —ricorda ancora la scena: era il 1962 e, dopo una visita di Martin Luther King che li aveva invitati a lottare per i loro diritti civili, gli abitanti del paese cominciarono a scendere a Camden, la città più vicina, per manifestare e chiedere il diritto di voto per i neri. Ma un giorno il traghetto col quale attraversavano il fiume Alabama — una zattera legata a un cavo teso tra i due argini — sparì nel nulla: volatilizzato. Per la gente di Gee’s Bend, una comunità poverissima composta da 700 discendenti di quegli schiavi che vive in una terra circondata su tre lati da un’ansa del fiume, fu un colpo durissimo. Da allora andare a Camden per fare la spesa, lavorare, vedere un medico, mandare i figli a scuola, ha imposto un lungo giro: un’ora e mezzo di auto.

Nessuno ha mai dato spiegazioni per la soppressione del servizio, ma in paese sono tutti convinti che sia stata una scelta politica delle autorità di Camden, decise a tenere i manifestanti neri lontano dalla città. Qualche anno dopo arrivò il diritto di voto per tutti e, alla Casa Bianca, il presidente Lyndon Johnson firmò la legge sulla piena integrazione dei neri. Ma a Gee’s Bend il traghetto non è mai tornato. Montgomery, Birmingham, Selma si sono riempite di musei che celebrano la riscossa dei neri dell’Alabama: la «ribellione del bus» di Rosa Parks, le grandi marce per i diritti civili, il «Bloody Sunday» sul ponte di Selma. Ma per 44 anni i neri di questo villaggio, una comunità soprannominata per la sua omogeneità etnica «l’Africa in Alabama», sono rimasti isolati. Per andare a scuola i bambini dovevano prendere un bus alle sei del mattino. E niente doposcuola, se volevano tornare a casa in tempo per la cena.

Fino a qualche mese fa, quando un traghetto — stavolta un battello a motore — è tornato a collegare le due rive del fiume. La gente del paese pensa che il merito sia delle quilters, le 40 donne di Gee’s Bend che ricamano tessuti spessi come una trapunta con una tecnica patchwork che riproduce motivi africani. Splendidi lavori di artigianato dai colori sgargianti che qui erano considerati comuni oggetti di casa. Nettie, che a quasi 90 anni è la decana delle tessitrici, ricorda che i quilt venivano usati come coperte e tappeti e venivano tagliati a strisce per farne pannolini quando nasceva un bimbo. Negli inverni più freddi sono stati perfino bruciati nel fuoco, quando la legna non bastava. Poi, dieci anni fa, arrivò Bill Arnett, un critico d’arte di Atlanta, che cominciò a parlare dei quilt di Gee’s Bend come di una straordinaria forma di folk art. La prima esposizione, a Houston nel 2002, ebbe un successo enorme. Gli «arazzi» dell’Alabama, definiti «jazz sotto forma di tessuto», finirono ben presto al «Whitney Museum of American Art» di New York.

Da allora le quilters si dividono tra la vita bucolica nel villaggio e le «tournee» in giro per il mondo. L’anno scorso 10 dei loro lavori più belli sono finiti sui francobolli delle Poste americane. «Ma non credo che il merito sia nostro; non solo, almeno », si schermisce Maryann Pettway, la manager della cooperativa che gestisce produzione e vendita dei quilt. «La decisione di ripristinare il servizio è di dieci anni fa. Poi ci sono stati problemi e difficoltà di ogni tipo, ma non credo che l’abbiano fatto apposta». Beh, il ritardo non sarà stato voluto, ma le autorità locali sono state quantomeno sprovvedute: quando il Congresso stanziò 695 mila dollari per un nuovo ferry, l’Alabama Department of Transportation affidò la sua costruzione a un produttore di barche in fibra di vetro di Montgomery che non aveva mai visto un traghetto in vita sua. Per metterne insieme uno impiegò anni, i costi triplicarono e, al primo viaggio, il battello si incagliò nei fondali fangosi del fiume: la Guardia Costiera lo sequestrò, ritenendolo insicuro.

Ma nel frattempo la campagna di stampa di Hollis Curl, l’editore di Progressive Era, il settimanale di Camden, aveva convinto il nuovo governatore dell’Alabama Bob Riley — repubblicano ma sensibile alle richieste delle contee nere a maggioranza democratica — a inserire il traghetto di Gee’s Bend tra le sue priorità. Affidato a una società specializzata, in poco tempo il battello è stato messo in condizione di navigare. Sei mesi fa quello che in paese è stato ribattezzato il Freedom Ferry (traghetto della libertà), ha cominciato a fare la spola tra le due rive del fiume. Gli ingredienti per una storia a lieto fine non mancano: una ex piantagione di cotone popolata da poverissimi discendenti di schiavi resi improvvisamente benestanti dai quilt venduti a migliaia di dollari ai collezionisti americani. Le case popolari volute dal presidente Roosevelt, che visitò questo villaggio poverissimo durante la Depressione degli anni ’30 del secolo scorso, dalle quali ora spuntano condizionatori d’aria e antenne paraboliche.

Un governatore repubblicano «buonista» e perfino un «segregazionista pentito»: Hollis Curl (oggi ha 72 anni) arrivò a Camden negli anni ’60, in piena battaglia per i diritti civili. E, dice lui stesso, «ero un razzista, come tutti gli altri cittadini». Eletto giudice della contea, un giorno fece imprigionare 410 neri, rei di aver iniziato una marcia di protesta non autorizzata. Poi, negli anni ’90, la conversione: «Capii che la segregazione non solo è immorale: è anche il suicidio economico della contea». E, per riscattarsi, iniziò la campagna per il ripristino del traghetto. Storia a lieto fine, dunque? Fino a un certo punto: lo Stato dell’Alabama finanzia la gestione del ferry per un anno. Poi, il servizio dovrà stare economicamente in piedi da solo. E i tre dollari per autovettura pagati dai residenti — avverte il tesoriere dello Stato — non bastano: «L’unica speranza è lo sviluppo del turismo». Nel centro per anziani che funziona anche da asilo-nido e da fabbrica dei quilt, alcune donne avanti negli anni inchiodano il tessuto da ricamare su assi di legno.

Raccontano le loro storie di discendenti di schiavi deportati dall’Africa e che nel 1820 furono condotti a piedi dal North Carolina al fiume Alabama da Joseph Gee per coltivare una piantagione. Quei campi — poi ceduti, con gli schiavi, alla famiglia Pettway — non esistono più. Nonostante la sua celebrità, il villaggio rimane immerso nel suo isolamento bucolico: tutti si conoscono, le porte delle case sono sempre aperte. Il magazzino nel quale sono ammassati i quilt è protetto solo da un lucchetto che, da noi, non spaventerebbe nemmeno un ladro di ciclomotori. Il ritorno del «traghetto della libertà» inorgoglisce queste donne. Il rischio di perderlo di nuovo le preoccupa, ma non le fa indignare: il villaggio tornerebbe ai suoi lunghi giri in autocorriera. E qualcuno — i pochi abitanti bianchi del luogo — sarebbe addirittura contento.

No, non sono dei reazionari né dei segregazionisti: sono tre famiglie di ambientalisti amanti del multiculturalismo che, arrivati all’età della pensione, hanno deciso di ritirarsi in queste terre verdissime e isolate. Gente che, ormai abituata ad ascoltare solo il vento tra gli alberi e la voce del fiume, ora teme, più di ogni altra cosa, il frastuono del turismo.

 

Massimo Gaggi

 

Corriere della Sera di martedì 8 maggio 2007

 

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