RWANDA:
Aprile 1994. Il Ruanda è in preda ala follia collettiva. I suoi cittadini di etnia hutu, attizzati da bande
armate di estremisti, gli hinterahamwe, sono
scatenati contro i tutsi e gli hutu
moderati. Civili armati di machete fanno a pezzi amici, compagni, conoscenti e
persino coniugi, colpevoli solo di appartenere a un
gruppo razziale differente. Alla mattanza partecipano anche parecchi preti,
cattolici, protestanti, avventisti.
E’ un
genocidio che, prove alla mano, è stato preparato meticolosamente. Mentre i
notabili del regime hutu al potere nei mesi
precedenti avevano comprato armi, munizioni e perfino
machete, dai microfoni di Radio Mille Coline, emittente legata al regime hutu, gli speaker, tra cui si distingue per la veemenza
l’italo-belga Giorgio Ruggiu (che si è dichiarato
colpevole e condannato a 12 anni), non fanno altro che eccitare gli animi:
«Schiacciate gli inyenzi (cioè
gli scarafaggi), riempite le tombe».
L’Onu non si muove e al Palazzo di Vetro di New York vengono cestinati gli accorati appelli del generale canadese
Romeo Dallaire, capo di un piccolo drappello di
caschi blu di stanza a Kigali, che annuncia con
settimane, se non mesi di anticipo, la preparazione del genocidio. In cento
giorni vengono sterminati un milione di tutsi e hutu moderati.
Un’ecatombe.
Il mondo
dei diplomatici assiste cinicamente immobile, e nel novembre successivo il
Consiglio di Sicurezza decide di costituire ad Arusha,
alle falde del Kilimangiaro, in Tanzania, un tribunale per i crimini commessi
in Ruanda. Nelle maglie degli investigatori internazionali finisce anche padre Athanase, fino a prima di quell’aprile 1994 conosciuto come un’anima pia.
LA
TRASFORMAZIONE - «Ogni mattina all’alba – racconteranno dieci anni dopo i suoi
parrocchiani al Corriere, a Nyange vicino
Kibuye, sul magnifico lago Kivu
in Ruanda - scendeva nella sua chiesa, preparava i paramenti, li indossava in
attesa dei fedeli per
L'AGGUATO
- Seromba, sostiene il capo d’accusa firmato nel 2001
dall’allora procuratrice Carla del Ponte e dopo dal sostituto Silvana Arbia, assieme al borgomastro e all’ispettore di polizia
prepara e mette in pratica un piano, diabolico, per sterminare la popolazione tutsi della zona. Per incoraggiare i tutsi
in fuga disperata nelle campagne a ripararsi nella parrocchia, il ministro di
Dio li attrae in chiesa usando tutta la sua autorità di religioso: promette
protezione. Intere famiglie - certe che gli interahamwe
rispetteranno il tempio, come già accaduto durante i massacri degli anni
precedenti - accettano l’ospitalità offerta dall’abate. Ma
una volta dentro, scoprono di essere intrappolati.
L'ORRORE
- Nessuno dà loro acqua e cibo e padre Seromba respinge il denaro dei rifugiati per acquistare pane e
frutta. Si rifiuta persino di celebrare
LA FUGA -
Ma sono loro a vincere la guerra nel giugno 1994 ed è Seromba
a fuggire. Prima in Zaire (l’attuale Repubblica
Democratica del Congo) poi in Italia. Quando giunge a Firenze, nell’estate del 1997, è
raccomandato da una lettera del vescovo di Nyundo,
che loda le sue doti di religioso semplice e devoto. Il prelato chiede alla
diocesi fiorentina di dargli accoglienza per un certo periodo. Dice sì che è un
profugo, ma dello Zaire e che si chiama Anastasio Sumbabura. La Curia toscana gli trova un posticino nella
parrocchia dell’Immacolata a Montughi.
LA
CATTURA - Tutto sembra finire lì. Invece lo scovano i
giornalisti. Il governo italiano tergiversa, ma poi deve cedere alle
pressioni della Del Ponte, che ottiene l’estradizione:
è il febbraio 2002. L’avvocato di Seromba, il beninese, Alfred Pognon uno dei fondatori di Avvocati
Senza Frontiere, durante un’intervista al Corriere nel settembre del 2004 ad Arusha, mentre si celebra il processo appare tranquillo.
«Il mio cliente è una vittima – sostiene sicuro – e il tribunale dell’Onu è politicizzato. Quei giudici vogliono condannare gli
accusati per giustificare la loro esistenza e la loro
burocrazia ignava che costa milioni di dollari. Attraverso Seromba
intendono colpire la Chiesa e noi dobbiamo impedirlo. Dimostrerò la sua
innocenza». Ma le prove e le testimonianze sono
schiaccianti e lui non riesce a farlo assolvere nonostante - sostengono
sottovoce alla procura del tribunale - le pesanti pressioni del Vaticano sui
magistrati.
Massimo A. Alberizzi
Corriere della
Sera di giovedì 14 dicembre 2006