LE RADICI NEGATE

 

Nel corso di una intervista televisiva sulla vicenda afghana di Daniele Mastrogiacomo, Piero Fassino ha detto che la ragione di Stato non può giustificare il sacrificio di una vita umana e che anche nel caso Moro sarebbe stato opportuno trattare con i rapitori. Il segretario dei Ds era nel mezzo di un teorema e voleva probabilmente spiegare le ragioni per cui la trattativa con i Talebani sembri oggi la più realistica e saggia delle vie d'uscita. Non sembra che Fassino sia contrario a tutte le guerre, indiscriminatamente. A Giovanni Minoli, se ho bene interpretato le sue parole, ha detto che in guerra le opzioni sono due: o si vince o si fa la pace con il nemico. Qualcuno potrebbe obiettare che la guerra contro i talebani è ancora in corso, che alcuni alleati dell'Italia la stanno facendo con l'intenzione di vincerla e che il consiglio di trattare con il nemico, soprattutto se viene dall'esponente di un Paese che non ha neppure accennato a combatterla, potrebbe risvegliare nell'opinione internazionale il ricordo ironico e infastidito di altri momenti di storia italiana. Ma forse è meglio tralasciare questo punto e parlare piuttosto del modo in cui Fassino ha riletto la tragica storia dello statista democristiano.

Anche quella naturalmente era una guerra. Fassino non può ignorare che in ogni guerra anomala, condotta contro una forza rivoluzionaria o un movimento di liberazione, il primo obiettivo del nemico è quello di essere riconosciuto. Le Brigate rosse non volevano denaro (il pagamento di una somma le avrebbe declassate al rango di una organizzazione criminale). Volevano acquisire la legittimità del nemico combattente e fregiarsene agli occhi del Paese per la fase successiva della loro strategia rivoluzionaria. Ritiene dunque Fassino che la battaglia per la legittimità, nel 1978, dovesse considerarsi perduta e che il sacrificio di una vita in quelle circostanze fosse assurdo? O ritiene che la perdita di una vita sia sempre e comunque da evitare?

In ambedue i casi la posizione del segretario dei Ds è totalmente diversa da quella del partito a cui apparteneva in quegli anni. Nulla di nuovo. Viviamo in un'epoca in cui è ormai facile chiedere perdono per gli errori e i peccati commessi dai propri antenati. Lo ha fatto Giovanni Paolo II per i «misfatti» della Chiesa cattolica. Lo ha fatto la regina Elisabetta per i massacri dell'esercito britannico in India. Lo hanno fatto gli uomini politici americani per il trattamento riservato agli indiani. Lo fa ora implicitamente Piero Fassino per la linea politica adottata da Enrico Berlinguer nel caso Moro. Tutti parlano delle proprie radici, delle proprie tradizioni e della necessità di preservarle, ma queste confessioni e questi «mea culpa» non possono che rimettere in discussione l'identità storica di una nazione, di un partito, di una chiesa. D'altra parte non servono a una migliore lettura della storia. Servono a chi li pronuncia per sbarazzarsi di un fardello ingombrante e avanzare più leggero verso gli obiettivi che gli sembrano in quel momento desiderabili.

Fassino ritiene che invitare i talebani a una conferenza internazionale sia il modo migliore per aiutare il governo Prodi a uscire senza troppi danni dall'imbroglio afghano. E non esita, trascinato dalla logica della sua strategia, a riscrivere la storia del caso Moro. Mi rendo conto delle sue difficoltà e non discuto qui le sue intenzioni. Ma non credo che possa spingersi, per finalità legate alla situazione di oggi, sino a rimettere in discussione il modo in cui la Dc e il Pci affrontarono uno dei momenti più difficili della storia nazionale.

 

Sergio Romano

 

Corriere della Sera di domenica 1 aprile 2007

 

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