Si è parlato molto, in questi mesi, delle reazioni che
suscitarono in Italia, e specialmente dentro il Pci,
i fatti d'Ungheria. Pochi hanno rievocato la rivolta operaia di Poznan, avvenuta qualche mese prima, nel giugno 1956.
Bene ha fatto dunque la moglie di Romano Bilenchi,
Maria, ad autorizzare la pubblicazione, presso Alet,
di una plaquette che contiene le carte di quello
che per il Pci fu un vero e proprio caso politico
che impose la chiusura del Nuovo Corriere di Firenze diretto dallo scrittore
toscano e la sua conseguente fuoriuscita dal partito. «Questa è la storia di
una ferita». Così Benedetta Centovalli, che cura la
raccolta del libretto, intitolato I fatti di Poznan.
Premessa: parliamo di un quotidiano nazionale di sinistra, finanziato dal Pci pur non essendo un organo di partito. Bilenchi ne assume la direzione nel 1948, aprendo il
primo numero con queste premesse: «Io sono per il colloquio con i cattolici,
per l' unità sindacale, per l' unione delle sinistre, di tutte le sinistre di
tutti i partiti, non credo alla dittatura del proletariato che porta alla
dittatura della polizia politica». In effetti, come avrebbe rivelato in un'
intervista degli anni Ottanta, i patti erano chiari: «Accettai di dirigere il
giornale purché me lo avessero lasciato fare come dicevo io: pluralista,
aperto, senza opposizioni da nessuna parte». Vi avrebbe collaborato, tra gli
altri, gente come Aldo Capitini, Piero Calamandrei,
Giorgio La Pira. Su
queste basi di libertà estrema, il Nuovo Corriere riuscì a consolidare il suo
pubblico, anche se le 50 mila copie quotidiane non garantivano una
sopravvivenza tranquilla. «Il giornale - scrive la Centovalli
- fu sostenuto ed elogiato da molti, tollerato e osteggiato dai dirigenti di
partito più conservatori e a poco a poco lasciato in balia di se stesso». Si
arriva così al 28 giugno 1956, quando quindicimila operai di una fabbrica di Poznan, in Polonia, esasperati dalla sordità del governo
alle loro richieste sindacali, avviano una manifestazione di protesta che in
poco tempo diventa una vera e propria rivolta. L' intervento della polizia e
dell' esercito è durissimo e i morti tra gli operai alla fine sono un
centinaio. Il 1° luglio esce sul Nuovo Corriere un editoriale firmato da Romano
Bilenchi che sin dall' incipit non lascia dubbi
sulle posizioni dello scrittore: «I morti di Poznan
sono morti nostri. Intendete che cosa vogliamo dire? Vogliamo dire che anch'
essi sono caduti sulla via che porta ad una società più giusta e più libera».
Si tratta di un atto d' accusa contro i regimi socialisti e di un invito all'
autocritica rivolta ai comunisti occidentali, italiani compresi. «E se dall'
Est venissero prove che le cose sono in parte sbagliate, tutte sbagliate, noi
affermeremmo tranquillamente che quell' esempio,
quelle esperienze di socialismo non vanno bene, faremmo di tutto per
correggerne gli errori». Ovviamente, a scanso di equivoci, non manca la
denuncia contro chi vuol «dare lezioni di libertà e di giustizia» pur
aiutando «una minoranza di sgherri a calpestare il popolo del Guatemala che
era riuscito a liberarsi dei suoi pochi sfruttatori», contro «chi favorisce
il linciaggio dei negri». Tuttavia, aggiunge, «comprendiamo come in questi
giorni Poznan sia un fatto favorevole a Washington,
a Londra e a Parigi». Un mese dopo, il giornale viene chiuso. Il Pci sospende i finanziamenti nonostante la promessa da
parte di Enrico Mattei di investire in pubblicità
dell'Eni per favorire la sopravvivenza del quotidiano. Il 7 agosto, esce l'ultimo
numero con un congedo in cui il direttore saluta e ringrazia i lettori e i
collaboratori, ma non il partito. Lo scambio di corrispondenza che segue tra Bilenchi e Togliatti avrà toni
piuttosto acidi. Il segretario del partito condanna come «menzogna» l'opinione
che vorrebbe la chiusura legata a questioni politiche; ricorda di essere
stato «costretto a letto» con un lieve attacco di polmonite proprio nei
giorni in cui fu presa la decisione; lamenta la mancanza di riconoscenza. Lo
scrittore, da parte sua, gli rimprovera di essere stato «messo così
brutalmente dinanzi al fatto compiuto» per ragioni essenzialmente politiche.
E si interroga: «Ma che concetto si ha degli uomini?». In una conversazione
con Pino Corrias dell' 85, Bilenchi
ricorderà l' editoriale di Poznan come la vera
causa della soppressione del giornale, ma cercando di attenuare la
responsabilità di Togliatti: «Sugli operai non si
spara, dissi. Togliatti, che mi aveva sempre
appoggiato, era ammalato e la segreteria era retta ad interim da Scoccimarro ( ). Dopo un anno riconsegnai la tessera che
accettai di riprendere solo nel 1972. Ma comunista sono sempre rimasto». In
una lettera in risposta a Elio Vittorini, che a un
mese circa dalla chiusura del giornale manifestava tutto il suo stupore per una
soppressione inaspettata, Romano Bilenchi avrebbe
precisato che «i migliori redattori del giornale, tutti solidali con me,
hanno dato le dimissioni dal Partito: Nomellini,
che era vicedirettore, Carnevali e Signorini, Modellini e Domenichini
e altri». Elio cerca di attenuare la rabbia dell' amico: «Io non so che cosa
augurare. Vorrei che avessi almeno un periodo di calma, di distacco da tutto,
anche a caro prezzo, per scrivere un libro come ti meriti di scrivere». Nel
1959 la ferita è lungi dall' essere rimarginata. In un' intervista di Roberto
De Monticelli, Bilenchi
dice che il ricordo di quella vicenda gli «fa ancora rovesciare lo stomaco».
Il che è dimostrato da una lettera molto dura che nel marzo dello stesso anno
Bilenchi scrive all' amico Elio (il quale gli ha
sottoposto, per ottenerne la firma, una lettera aperta al Psi),
esprimendo tutta la propria rabbia e una più generale delusione ideologica:
«Noi abbiamo fatto parte del Pci. Ce ne siamo
staccati perché in fondo è un partito reazionario, i cui dirigenti sono dei
carabinieri». L' opinione sulla sinistra italiana nel suo complesso è
impietosa: «Io non credo a questi partiti: il Pci,
il Psi, il Psdi sono sputtanati, sputtanatissimi. Io
penso che noi dovremmo se mai agire perché si formi un partito di sinistra
più moderno, democratico». Ma ancora nel 1972, quando poi Bilenchi
deciderà di rientrare nel partito, in una lettera all'amico Silvio Guarnieri, il ricordo di quella lontana vicenda continua
a bruciare. Brucia soprattutto il fatto di essere stato scaricato, mentre
negli ambienti politici circolavano voci artificiose su una sua ricollocazione all'Unità o alla Feltrinelli.
Brucia il fatto di avere intuito loschi traffici interni al partito per
tenere all' oscuro Togliatti (ma era davvero
possibile che il leader fosse rimasto tagliato fuori dalla vicenda?): «In
realtà non mi offrirono nulla e, approfittando della malattia di Togliatti, mi allontanarono ( ). Dentro il Partito c' era
e c' è ancora una banda nefasta». E aggiunge: «Io non sarei uscito per la
soppressione del Nuovo Corriere, non sono uscito a causa dei fatti di
Ungheria come molti hanno detto. Uscii perché ero stato trattato
bestialmente, uscii per una incazzatura personale».
Evviva la sincerità.
Paolo Di Stefano
Corriere della Sera di lunedì 18 dicembre 2006
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