TOGLIATTI,
«Invocò la repressione in Ungheria e
favorì la caduta di Kruscev»
L'affondo è pesante, di quelli che lasciano
il segno. Secondo Federigo Argentieri, alcuni documenti fondamentali sull'opera
di Palmiro Togliatti nel periodo successivo alla morte di Stalin, emersi nel corso degli anni Novanta,
«sono stati tutti minimizzati o caparbiamente ignorati dagli studi post 1991
provenienti dall'area politico-culturale vicina ai Ds».
E gli autori di matrice postcomunista,
continua, hanno agito così «di proposito, semplicemente allo scopo di evitare
di mettere in discussione le proprie posizioni, consistenti soprattutto nel
reiterato tentativo di accreditare Togliatti come il
vero capofila del riformismo italiano».
Una denuncia che l' autore
ha inserito nella nuova e più polemica edizione del suo libro Ungheria '56. La rivoluzione
calunniata (pagine 192, 10), appena uscita da
Marsilio nella collana «I libri di Reset»,
con prefazione di Giancarlo Bosetti. Togliatti,
afferma Argentieri, non solo approvò in pieno l'intervento sovietico a
Budapest, ma lo invocò in sede riservata presso il Cremlino
e agì sistematicamente per frenare le conseguenze della destalinizzazione:
lungi dal mettersi alla testa del rinnovamento nel mondo comunista, fu il più
astuto e autorevole tessitore della restaurazione, infine sfociata nella caduta
di Nikita Kruscev, l'uomo
che aveva denunciato i crimini di Stalin, e nell'ascesa di Leonid
Breznev.
Molti gli episodi citati a suffragio di
questa tesi. La lettera spedita ai vertici del Cremlino
il 30 ottobre
Insomma, Argentieri sostiene
che Togliatti non fu il padre di una genuina via italiana
al socialismo, perché non poteva in alcun modo rinnegare il suo passato
stalinista. A suo avviso nel Pci un
autentico revisionismo «sarebbe nato veramente solo nel 1964 con
Di qui il giudizio
fortemente critico espresso da Argentieri sugli autori ancora propensi a
difendere la figura di Togliatti. È tutta una
corrente storiografica, legata soprattutto alla Fondazione Istituto Gramsci, che viene direttamente
chiamata in causa: dai più accesi sostenitori del «Migliore»,
C'è poi un bersaglio ancora più autorevole,
arcinoto a livello internazionale. Si tratta dello storico marxista inglese Eric Hobsbawm, del cui itinerario intellettuale Argentieri rivela un particolare
piuttosto imbarazzante.
Nella sua autobiografia Anni interessanti (Rizzoli), il celebre
studioso ricorda di aver sottoscritto all'epoca della rivolta di Budapest, con altri intellettuali di sinistra, una
lettera molto critica verso l'invasione sovietica. Non fa cenno
però a un suo precedente intervento, che uscì il 9 novembre 1956 sul Daily Worker, quotidiano del
Partito comunista britannico. In quel testo Hobsbawm
paventava il pericolo di un'Ungheria dominata da forze conservatrici di destra,
che sarebbe diventata un focolaio della controrivoluzione
nell'Est europeo. E, pur auspicando un ritiro dell'Armata
rossa che avvenisse al più presto possibile, affermava: «Se
fossimo stati nella posizione del governo sovietico, saremmo intervenuti; se
fossimo stati nella posizione del governo ungherese, avremmo approvato l'intervento».
Argentieri riprende
la citazione da un libro di Peter Fryer,
all'epoca corrispondente del Daily Worker da Budapest, che ruppe con il partito dopo la
rivoluzione ungherese. Un uomo che del suo comportamento in
quei giorni tragici, a differenza di Hobsbawm, oggi
non ha nulla da nascondere né da rimuovere.
Antonio Carioti
Corriere
della Sera di martedì 18 luglio 2006