LA RAI DI CRAXI

Quei Nani almeno cambiarono la Tv

 

Che peccato, se va avanti così la Rai rischia di passare alla storia non come la più grande industria culturale del Paese. Ma come il più grande «covo di mignottari», giusto per usare l'espressione di Luca Barbareschi. Lui, i suoi amici di destra, li aveva avvertiti, eccome se li aveva avvertiti! In una riunione sul futuro innovativo della Rai aveva sbottato: «La destra alla Rai non ha portato altro che zoccole». Allora fu preso per pazzo, per un risentito che parla roso dalla frustrazione. Adesso sono in molti a dargli ragione, a paragonare la stagione Rai di Alleanza nazionale con quella ben più famosa del Psi di Craxi, Martelli e De Michelis, bollato per l'eternità da Rino Formica come «corte di nani e ballerine». Però le cose non stanno così. I socialisti non disdegnarono i nani e le ballerine (Anja Pieroni fu il simbolo di quell'epoca disinvolta, gaudente e sfacciata), non si fecero certo mancare le «pupe di regime», scandalizzarono Viale Mazzini (era una Rai fortemente controllata dai democristiani) ma contribuirono non poco alla sua modernizzazione. Non nei costumi, come ironicamente si può pensare, ma nei programmi, nel prodotto, nei «contenuti» come si dice oggi. E la cosa più sorprendente è che questa modernizzazione toccava soprattutto l'entertainment, l'ibridazione dei generi, le nuove offerte della tv, non certo le stanze paludate dell'informazione. Quando nel 1976 i due canali della Rai prendono fisionomie diverse, secondo i dettami della Riforma, la rete che innova è senza ombra di dubbio la seconda, quella «appaltata» ai socialisti. Basta ricordare alcuni programmi: «L'altra domenica» di Renzo Arbore e Maurizio Barendson (affondando le radici nella grandiosa esperienza radiofonica di «Alto gradimento», il programma riesce a creare un clima stralunato e fantastico, tipico dell'improvvisazione a lungo studiata; ma la banda di personaggi sgangherati, l'idea di spettacolo che, fulminea, attraversa gli occhi del conduttore e si propaga dallo schermo alla ricerca della complicità dello spettatore sono una novità assoluta per la tv), «Onda libera» di Roberto Benigni, «Odeon. Tutto quanto fa spettacolo» di Brando Giordani ed Emilio Ravel, «Bene! Quattro diversi modi di morire in versi» di Carmelo Bene, «Supergulp! Fumetti in tv», «Il teatro di Dario Fo» (dopo anni di esilio Fo riesce a proporre i suoi spettacoli da «Mistero buffo» a «La resurrezione di Lazzaro», da «Settimo: ruba un po’ meno» a «Isabella, tre caravelle e un cacciaballe»), «Match» il talk show condotto da Alberto Arbasino, «Portobello» di Enzo Tortora, la madre di tutti i programmi delle tv locali. Che di lì a poco sarebbero apparse sulla scena televisiva italiana. Non si tratta qui di trovare un certo numero di «buoni» programmi (per quanto ristretti ai primissimi anni della Riforma) quanto piuttosto di individuare un'idea nuova di tv che si rappresenti come area simbolica di soggetti alla prese con ansie e cambiamenti generalizzati e sempre meno come terreno dove affrontare e risolvere i problemi con un' azione pedagogica collettiva. E la grande destra di Guido Paglia cosa ha portato di nuovo in Viale Mazzini? Nani e ballerine, certo. Poltrone e alcove, certo. Le belle porcelle doc, certo (una vecchio democristiano ha commentato: «È una Rai agreste, è tornato il periodo della monta»). Poi il Premio Almirante, poi il Premio Italiani nel mondo, poi Paola Saluzzi, poi le grandi trasmissioni culturali di Gigi Marzullo, poi i commenti sportivi di Italo Cucci, poi gli approfondimenti di Mauro Mazza, poi il recupero di Enrico Montesano, poi gli sceneggiati storici che Agostino Saccà confezionava apposta per la «memoria condivisa». Poi?

 

Aldo Grasso

 

Corriere della Sera di mercoledì 21 giugno 2006

 

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