Il «caso
Grossman» è forse il più strabiliante tra i tanti, tragici
e grotteschi, di cui sono state ricche le letterature dei regimi comunisti e,
in primo luogo, quella sovietica che, sullo sfondo grandioso di un fulgido avvenire,
conosceva in realtà un'esperienza fatta di assurdità
e soperchierie. In questo mondo si formò Vasilij Grossman che, nato nel 1905 a Berdicev,
centro ebraico per antonomasia, seguì poi il curricolo di altri
ebrei radicati nella cultura russa e integrati nella realtà sovietica. Dopo
aver ultimato gli studi universitari a Mosca alla facoltà di Fisica e
matematica e aver lavorato come chimico nel Donbass,
Grossman esordì come scrittore nel 1934 e si
affermò sempre più nell'ambito del «realismo socialista» come una delle
migliori penne della letteratura sovietica. Per Grossman,
la cui narrativa pur con i suoi meriti rientrava nella media della produzione
letteraria di quel tempo, una svolta decisiva al suo destino fu impresso dalla guerra antinazista, alla quale egli
partecipò come corrispondente del giornale dell'esercito Stella Rossa, guadagnandosi
nuova popolarità e distinguendosi per la prima documentazione sui campi di
sterminio e sui massacri antiebraici nazisti (il suo scritto Lo sterminio degli ebrei a Berdicev, del 1944, resta ancor oggi esemplare).
Avveniva intanto nell'Urss quell'inversione
di tendenza, nota come «antisemitismo di Stato», per cui
gli ebrei sovietici entravano nel mirino della nuova ondata repressiva del
regime, nel momento stesso in cui essi, sotto l'influsso della guerra
antinazista alla quale molti di loro come Grossman
avevano partecipato valorosamente, scoprivano dentro di sé le radici ebraiche
prima obliate. Per Grossman la seconda guerra
mondiale significò, tuttavia, molto di più di una riscoperta di una semiticità atrocemente
perseguitata: per lui, come per altri, attraverso quell'esperienza
tragica, si apriva un nuovo umanesimo, una visione che spezzava gli schemi
dell'ideologia marxista-leninista, anzi ne vedeva la falsità, se non la criminosità. Alla
guerra Grossman dedicò nel 1942 un romanzo
intitolato Il popolo è immortale e, dieci anni più tardi, un'epopea di grande respiro, Per la giusta causa, che restò alla sua
prima parte, anche perché colpita da una critica ufficiale che allora, nella
campagna ideologico-poliziesca contro il cosiddetto
«cosmopolitismo», menava fendenti anche contro «deviazioni» inesistenti.
Intanto però il processo di maturazione di Grossman
proseguiva, favorito anche dalla morte, non solo fisica,
ma etica e politica di Stalin, dopo il 1956: si
trattava di una vera e propria metanoia, di una
illuminazione e liberazione interiore che lo portò ai suoi ultimi due
romanzi: la continuazione (in realtà si trattava di un'opera del tutto nuova)
di Per la giusta causa, il romanzo Vita e destino, e il più breve romanzo
Tutto scorre..., in un certo senso complementare al primo. Questi
due testi, pubblicati in russo dapprima in Occidente (il primo nel
1980 e il secondo nel 1970), gli valsero la prima vera persecuzione da parte
del regime, anzi, per essere più precisi, un duro ostracismo, dati i tempi
meno inclementi di quelli staliniani, una proibizione censoria, ovviamente,
alla pubblicazione in patria di quei due testi (il dattiloscritto fu
sequestrato dal Kgb, ma una copia giunse
fortunosamente in Occidente), davvero scandalosi dal punto di vista dell'ideologia
al potere, e il pressoché totale isolamento dello scrittore, il che influì
sulla sua morte nel 1964. Chiusa l'esistenza di Vasilij
Grossman, cominciò il trionfo del suo capolavoro.
Vita e destino, in particolare, divenne l'opera narrativa maggiore che in
russo fosse stata scritta sulla «grande guerra
patriottica», come i sovietici chiamavano, dal loro punto di vista, la
seconda guerra mondiale. Ed era un paradosso intollerabile per i nazionalisti
russi, comunisti o no, che a scrivere la più alta epopea su Stalingrado, momento cruciale militare e simbolico dell'immane
conflitto, fosse un ebreo, per di più dissidente
ante litteram. Uno scrittore ebreo e russo che
proclamava l'aspirazione alla libertà come insopprimibile supremo valore dell'uomo,
un valore che Grossman lucidamente vedeva affermato
nell' antifascismo autentico, quindi non in quello
comunista, che anzi per lui era una nuova mascheratura
di un'ideologia totalitaria, nemica della libertà, della quale il
nazionalsocialismo costituiva l'altra manifestazione. Vita e destino è un'opera così vasta e profonda e ricca di figure
e significati che limitarla alla tesi di una equiparazione
sostanziale tra i due totalitarismi del XX secolo sarebbe riduttivo, anche se
indubbiamente il surreale colloquio tra un alto esponente della dirigenza
nazista, convinto che i due nemici totalitari siano in realtà carne della
stessa carne, e un rappresentante del regime comunista sovietico sta al
centro dell'opera. Al di là di questo colloquio, è tutta
la complessa struttura del romanzo che illustra la verità di quell'allucinante dialogo, mentre le pagine più alte
esprimono quell'anelito alla libertà che era
sentito fino al sacrificio dagli autentici combattenti antifascisti
sovietici, inevitabilmente anticomunisti, dato che dal regime quell'anelito veniva inesorabilmente soffocato. Anche il
romanzo minore Tutto scorre..., storia di un
reduce dai lager staliniani che urta contro l'abiezione della realtà
sovietica e svolge una lunga riflessione sulla storia russa e sulla
rivoluzione comunista, provoca nuovo «scandalo» per la durezza della sua
critica del passato storico russo in quanto nemico della libertà. Va detto
che, come nel caso di Vita e destino, anche con Tutto scorre... ci si trova di fronte non ad opere storiche o
filosofiche, ma a narrazioni, il cui pur forte pensiero si manifesta in
strutture letterarie fatte di situazioni e personaggi. Per cui, come nel caso
dell'equiparazione tra comunismo e nazismo in Vita e destino, la verità del confronto non può esimere dal
riconoscimento delle diversità delle due esperienze totalitarie, pur
accomunate da strutture formali e pratiche criminose, così in Tutto scorre... la riflessione del
protagonista sull'«anima russa» come spiegazione della tragedia sovietica non
può surrogare una riflessione storica approfondita (il ricorso all'«anima
tedesca», analogamente, non spiegherebbe la tragedia tedesca
del nazismo). Un pensatore politico, che forse Grossman
non conosceva direttamente, previde genialmente a metà del
XIX secolo quello che Grossman, come altri prima di
lui, conobbe nella realtà. Si tratta di Giuseppe Mazzini che nel 1847,
parlando della democrazia europea, in polemica coi
comunisti, allora solo teorici, scriveva: «Avrete una gerarchia arbitraria di
capi con l'intera disponibilità della proprietà comune, padroni della mente
per mezzo di un'educazione esclusivista; del corpo per mezzo del potere di decidere circa il lavoro, la capacità, i bisogni di
ciascuno. E questi capi imposti o eletti, poco importa,
saranno, durante l'esercizio del loro potere, nella condizione dei padroni di
schiavi degli antichi tempi; e influenzati essi medesimi dalla teoria dell'interesse
che rappresentano - sedotti dall'immenso potere concentrato nelle loro mani -
cercheranno di perpetuarlo; si sforzeranno di riassumere, per mezzo della
corruzione, la dittatura ereditaria delle antiche caste». Vita e destino e Tutto scorre... di Vasilij Grossman sono una conferma vissuta di questa
ardita previsione e insieme un'alta prova di resistenza e libertà.
Vittorio Strada
Corriere della Sera
di giovedì 12 gennaio 2006
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