Il
genocidio non è un massacro, una strage, una carneficina, un eccidio. Secondo
Raphael Lemkin, ebreo di origine polacca e professore di diritto internazionale
in una università americana, la parola (da lui coniata nel 1944) poteva
essere usata soltanto per definire la precisa intenzione di annientare l'identità
nazionale, religiosa ed etnica di un popolo. Quando se ne servì
in un libro intitolato Axis Rule
in Occupied Europe («Il
dominio dell'Asse nell'Europa occupata»), Lemkin
ritenne che questo nuovo tipo di crimine internazionale definisse, in
particolare, le misure pianificate dai nazisti contro gli ebrei e i polacchi.
Quattro anni dopo, nel 1948,
l'Onu adottò una «Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di
genocidio». Il dibattito giuridico, a questo punto, cominciò a
confondersi con il dibattito storico e politico. Quando il diritto
internazionale definisce un nuovo reato e lo colpisce con una particolare
sanzione politica e morale, non è irrilevante stabilire se la morte di un
gran numero di esseri umani debba definirsi
genocidio, massacro o strage. Sul trattamento riservato agli ebrei dal Terzo Reich esiste da sempre, con la voce stonata di qualche negazionista, un universale consenso. Ma
in altri casi la questione è meno semplice. Possiamo parlare di genocidio a
proposito degli armeni morti durante le terribili
marce dell'esodo nel 1915? È genocidio il trattamento riservato dalla Russia
sovietica ai borghesi nel 1918, ai kulaki nel 1929
e agli ucraini nel 1932? Sono tentativi di genocidio i trasferimenti di intere comunità in condizioni particolarmente
drammatiche a cui Stalin ricorse frequentemente? È genocidio quello
perpetrato dai nazisti contro gli zingari, dai khmer
rossi in Cambogia, dagli hutu in Ruanda e dai serbi
in Bosnia? L'importanza assunta dalla Shoah negli
studi accademici e nella vita pubblica dell'Occidente, soprattutto negli
ultimi trent'anni, ha creato una sorta di corsa al
genocidio. Le vittime e i loro congiunti esigono il pubblico riconoscimento
delle loro sofferenze, non vogliono che la loro vicenda venga
trattata come un crimine di seconda categoria. La discussione comporta
necessariamente una comparazione e lo studio attento delle diverse
circostanze in cui tali avvenimenti hanno avuto luogo.
Ma gli ebrei sono generalmente ostili a un metodo
che finirebbe, secondo alcuni, per relativizzare i singoli eventi e diminuire
l'importanza della loro particolare tragedia. Al confronto tra i genocidi
oppongono l'unicità della Shoah e quindi,
implicitamente, l'unicità della storia ebraica. Ma quanto più insistono per
sottrarre la loro tragedia a qualsiasi confronto, tanto più suscitano nelle
altre vittime una combinazione di invidia,
risentimento, gelosia. Questo intreccio di argomentazioni
è da tempo sul tavolo degli storici. Sono loro, dopo tutto,
che debbono accertare i fatti, individuare le cause, valutare le conseguenze
e definire le particolari caratteristiche di un evento. Se il giudice è all'Aja, dove siedono due corti di giustizia (il Tribunale
penale internazionale e quello per i crimini di guerra nella
ex Jugoslavia), la giuria è nelle università, nelle riviste
specializzate, nei mezzi d'informazione. Per entrare in questa
aggrovigliata materia non esiste guida migliore del libro di Bernard Bruneteau Il secolo dei genocidi, apparso in
questi giorni presso il Mulino con l'introduzione di uno storico italiano,
Marcello Flores, che studia da tempo gli orrori del Novecento. Bruneteau accetta la definizione di Lemkin
e cerca di individuare anzitutto le radici di un fenomeno che ha marcato con
una pietra nera la storia degli ultimi cento anni. In questo viaggio a
ritroso si imbatte anzitutto nei grandi massacri
coloniali, da quello dei belgi in Congo a quello dei tedeschi nell'Africa del
Sud Ovest. Ma le cause profonde sono più remote e
vanno ricercate nella cultura della seconda metà dell'Ottocento. Le teorie di
Darwin sulla evoluzione della specie seducono alcuni
filosofi e contribuiscono a diffondere le tesi del darwinismo sociale: una
ideologia che teorizza la graduale scomparsa delle razze inferiori. Spuntano
rapidamente da questo tronco alcuni rami. Un brillante studioso austriaco, Ludwig Gumplowicz, sostiene che
il motore della storia non è la lotta di classe, come affermano i discepoli
di Marx, ma la «lotta delle razze». Mentre Gumplowicz
adotta un atteggiamento sostanzialmente distaccato e
neutrale, altri studiosi non esitano a parlare di «razze superiori».
Di lì a sostenere che le razze inferiori non hanno il diritto di esistere, il
passo è breve. Iscritta ormai nel libro della evoluzione,
la loro scomparsa può legittimare l' uso della forza e - perché no? - quello
della scienza. Appare infatti negli stessi anni un
frutto malato del positivismo: l'eugenetica, vale a dire la disciplina che si
propone di accelerare con mezzi scientifici l'evoluzione e il miglioramento
della specie umana. Il dottor Mengele, ormai, è
dietro l'angolo. Perché i libri diventino realtà
occorre tuttavia la scintilla della storia. L'evento che maggiormente
contribuisce a diffondere i germi di queste teorie è
la Grande guerra. Il conflitto disumanizza il campo
di battaglia, banalizza la morte, trasforma il nemico in un essere ripugnante
da sopprimere, liquidare, annientare. Occorre falciarlo con le
mitragliatrici, schiacciarlo con i cannoni, bruciarlo con i lanciafiamme,
avvelenarlo con i gas. Dopo la fine della guerra, le grandi ideologie
totalitarie prolungheranno il clima della lotta a
oltranza, senza quartiere. Anche se Bruneteau fa
qualche interessante distinzione, non esiste grande
differenza tra la percezione dell'ebreo nella Germania nazista e quella del
borghese, del pope o del kulak nella Russia bolscevica. E
non esistono grandi differenze nel numero delle vittime da una parte e dell'altra.
In ambedue i casi il nemico è un verme, un microbo,
una piaga sociale. L'autore del libro ricorda che Lenin era ossessionato
dalla necessità di «epurare», «ripulire», «purgare» la terra russa dagli
«insetti nocivi», dalle «pulci», dalle «cimici» e dai «parassiti» che la infettavano. Gli
attivisti comunisti, che andavano a caccia dei controrivoluzionari nelle
campagne russe, definivano se stessi «la scopa
rossa». Il gergo nazista e le ossessioni di Hitler
sono l'immagine speculare del gergo bolscevico e delle ossessioni di Lenin o
Stalin. Ho concentrato la mia attenzione sulle cause storiche e culturali del
genocidio e ho necessariamente trascurato i capitoli del libro dedicati ad
alcune grandi vittime del Novecento: gli armeni, i
nemici di classe nella Russia di Lenin e di Stalin, gli ebrei e gli zingari nell' Europa nazista, i cambogiani all'epoca di Pol Pot, i tutsi del Ruanda. Ma è questa la parte che riserverà ai lettori maggiori
emozioni e sorprese. Qui Bruneteau dimostra di
essere non soltanto un eccellente storico, ma anche un efficace e avvincente
narratore.
Il
libro: Bernard Bruneteau,
«Il secolo dei genocidi»,
traduzione di Alessandra Flores d' Arcais, il Mulino, pagine 299, euro 22
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