GYSI: «LA STASI? NON ERA COSI’ TERRIBILE»

Il leader postcomunista: «Si è sciolta senza usare un'arma»

 

  «La Stasi? Fatemi dire una cosa buona in proposito. Si è fatta sciogliere pacificamente, 80 mila persone in armi sono semplicemente andate a casa. Qualcuno oggi lotta perché si affermi di lui un'immagine diversa. E racconta anche cose prive di senso. Ma nessun'arma è stata usata».
  Lo afferma Gregor Gysi, co-presidente insieme ad Oskar Lafontaine della Linkspartei, il partito tedesco di estrema sinistra, ma soprattutto leader carismatico dei post-comunisti, eredi riluttanti della Ddr di Honecker. Le sue esternazioni, affidate a un'intervista a Die Welt, riattizzano il fuoco delle passioni, toccano irritandola la ferita nazionale sul passato recente e ripropongono il lacerante dibattito sull'identità della nuova Germania, riunificata ma non riconciliata dopo la fine della Guerra Fredda.
  Gysi, che pure non è nostalgico della famigerata polizia segreta del regime comunista dell'Est, si muove nella zona grigia di chi non può o non vuole esprimere una condanna netta e generalizzata della Ddr, che per molti tedeschi rimane nel bene e nel male il Paese dove hanno vissuto.
  Ma i suoi distinguo e i suoi inviti a «verificare caso per caso, senza criminalizzare all'ingrosso» cozzano con due eventi, che proprio in queste settimane hanno avuto il merito di restituire in modo semplice e fedele, ma proprio per questo devastante, quello che fu il vero volto della Stasi, la sua torva bulimia invasiva, il permanente stupro fisico e mentale che rovinò la vita a centinaia di migliaia di persone. Una storia cinematografica e una storia vera, personalissima e struggente, ricordano ai tedeschi la vita quotidiana ai tempi della Germania Est.
  Accolto da grandi lodi della critica, «Das Leben der Anderen», la vita degli altri, è già un film di culto. È la storia di un complotto della Stasi per screditare uno scrittore, che si conclude tragicamente con il suicidio della donna che ama e con la fine della sua carriera letteraria. «Il miglior film sulla Ddr dalla riunificazione», ha commentato Die Zeit. «È la prima volta che il lavoro della polizia segreta viene messo al centro della trama», ha scritto la Frankfurter Allgemeine.
  Una
svolta radicale rispetto alle ricostruzioni dolci-amare degli ultimi anni, quando pellicole diventate celebri come «Sonnenallee» e soprattutto «Goodbye Lenin» avevano immerso la critica alla Ddr in un bagno di sentimentalità e ironia dal sapore nostalgico. Qui il regime è visto nel suo doppio ruolo di corrotto e corruttore. Lo scrittore non fa il dissidente e sceglie un profilo basso, ma viene sospettato lo stesso. Quando si decide alla critica aperta, il complotto è già cominciato, ma per motivi diversi: il ministro della Cultura si è incapricciato della sua fidanzata, un'artista splendidamente interpretata da Martina Gedeck. Per salvare la carriera di lui, lei cederà al potente e poi si ucciderà. Ma sarà stato tutto inutile. «Abbiamo portato il film in giro in venti città dell'Est e la gente diceva: "Questo è ciò che abbiamo vissuto"», spiega il regista, Florian Heckel.
  A rendere il film ancora più realistico, è la scelta di Ulrich Mühe per il ruolo di un agente della Stasi tormentato dai dubbi. Mühe viene dall'Est e nella vita reale scoprì che la spia messagli alle calcagna dalla centrale di Mielke era nient'altri che... sua moglie, anche lei attrice.
  La storia privata è quella di Tatjana Sternberg, che solo per essersi innamorata di un italiano si fece quasi tre anni di carcere. Avvenne nel 1973, lei appena ventunenne di Berlino Est e fermamente decisa a sposare Antonio, un giovane nostro connazionale che lavorava e viveva dall'altra parte del Muro. Li arrestarono insieme, mentre cercavano di informarsi sulle possibilità di una fuga per lei all'Ovest. Lei uscì nel 1976, le autorità occidentali pagarono la sua libertà, sposò Antonio ed ebbero un figlio. Ora, a 54 anni, Tatjana ha deciso di accusare pubblicamente i suoi carnefici, gli ex ufficiali della Stasi che provano a riscrivere il passato, tacendo le loro responsabilità in libri pieni di buchi e menzogne. Trent'anni dopo, vuole scuse. E non bugie.

 

Paolo Valentino

Corriere della Sera di venerdì 28 aprile 2006

 

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