GELATI FAZZOLETTI E BORSE. QUANDO IL CHE FA VENDERE

Icona dei rivoluzionari marxisti, di cento ribellioni come quelle dei «no global» e perfino di guerre civili (dall'Ulster al Nicaragua), ma anche immagine «di culto» dell'arte pop, negli ultimi decenni la «storica» foto di Che Guevara che scruta l'orizzonte è stata assorbita dal capitalismo che l'ha svuotata di ogni significato politico, ha «liofilizzato» il carisma del guerrigliero e ha trasformato quel volto in uno strumento commerciale: niente più inviti alla rivoluzione (vera o in pantofole), solo un generico ribellismo alla James Dean usato come messaggio promozionale per vendere di tutto, dalle sigarette alla vodka, dai gelati ai fazzoletti di carta. La «perfidia» del mercato, passato come uno schiacciasassi sulla foto del «comandante Guevara» scattata da Alberto Korda nel 1960, una delle immagini più celebri del XX secolo, viene raccontata in questi giorni dalla mostra «Che, Revolution and Commerce» ospitata a New York dal Centro Internazionale di Fotografia. La galleria di prodotti venduti usando come logo l'immagine che - a partire dalla rivolta studentesca di Parigi nel maggio del '68 - trasformò il guerrigliero appena ucciso in Bolivia in un simbolo rivoluzionario e in un eroe romantico, impressiona: lo sguardo penetrante del «guerrillero eroico» (così Korda intitolò il suo scatto) è inciso o stampato su portachiavi e orologi, borse, portafogli, magliette. L'uso più blasfemo è forse quello dell'industria dolciaria che ha prodotto il «Cherry Guevara»: un gelato nel quale, recita lo slogan, «la forza rivoluzionaria della ciliegia (cherry, in inglese) è imprigionata fra due strati di cioccolata». Nello sfruttamento commerciale dell'immagine del medico argentino divenuto simbolo della rivoluzione castrista (ma sempre tenuto a debita distanza da Fidel Castro) c'è un po' di tutto: dalla spregiudicatezza dei pubblicitari che lavorano per le grandi «corporation» agli studenti universitari che si sono pagati gli studi vendendo zainetti con quel logo; fino allo stesso governo cubano che non trova fuori luogo usare l'immagine del suo combattente per pubblicizzare il turismo nell'isola caraibica. Del resto le magliette con l'immagine del «comandante» sono la prima cosa che viene offerta ai turisti che atterranno all'Avana. «È la vittoria dell'economia di mercato con la sua capacità di digerire tutto, di trasformare anche i suoi peggiori nemici in una "commodity", in un bene strumentale» commenta tutt'altro che scandalizzato il Washington Post che ricorda anche come Internet ospiti decine di siti (come «Thechestore.com» e «Fidelche.com») specializzati proprio nella vendita di oggetti col marchio guevariano. A comprarli, in genere, sono ragazzi che non pensano certo alla lotta armata. Un uso commerciale che, in fondo, è stato involontariamente favorito proprio da Alberto Korda, fotografo di moda nella Cuba di Fulgencio Batista che, dopo la rivoluzione, divenne il fotografo ufficiale di Castro: Korda, morto a Parigi nel 2001, non ha infatti mai voluto ricavare una lira di copyright dalla sua immagine più celebre. Solo una volta si oppose in tribunale al suo sfruttamento commerciale: quando la Smirnoff usò il «guerrillero heroico» per pubblicizzare la sua vodka: «Non accetto che l'immagine del Che venga denigrata affiancandola all'alcol» protestò allora Korda. Del resto quella foto fu scattata in circostanze tutt'altro che «eroiche»: era il 1960 e Korda stava fotografando Fidel Castro che parlava al funerale di alcuni cubani morti nel porto dell'Avana per l'esplosione di un cargo carico di munizioni. Korda riprese anche Jean-Paul Sartre, presente alla cerimonia. Guevara, allora ministro dell'industrializzazione, salì solo per qualche attimo sul podio: osservò la folla, ma non disse una parola. Colpito dalla sua espressione ieratica Korda, che era lì sotto, scattò con la sua Leica la celebre foto. Un'immagine che, usata solo un paio di volte per pubblicizzare conferenze, rimase sostanzialmente sepolta per anni nella pellicola di Korda. Il regime castrista cominciò ad utilizzarla a fini propagandistici, abbinandola allo slogan «Hasta la victoria siempre», solo dopo l'uccisione del «guerrillero heroico», in Bolivia, nel 1967. Nonostante la tragica fine dell'avventura rivoluzionaria del guerrigliero castrista, nel 1987 i giapponesi della Famicom crearono un videogioco che riproduceva combattimenti nella giungla e lo chiamarono proprio «Guevara». Il videogame ebbe grande successo e venne ben presto importato da europei e americani che preferirono ribattezzarlo «Guerrilla War», togliendo tutti i riferimenti diretti al «Che» (il campo di battaglia rimase, però, l'isola di Cuba). Ma l'uso più sorprendente dell'immagine del rivoluzionario argentino rimane quello tentato (non a fini commerciali ma per proselitismo religioso) dal Churches Advertising Network, un'organizzazione britannica di propaganda cristiana. Lo slogan «Dolce, mite come una pecorella mica tanto! Scoprite il vero Gesù» sconcertò molti. Il reverendo ideatore della campagna cercò di correre ai ripari: «Ovviamente non pensavamo al comunismo, ma alla forza rivoluzionaria che si sprigiona dalla figura del Che». Invano: l'iniziativa non piacque ai cattolici. E non sarebbe piaciuta nemmeno a Guevara: «Non mi paragonate a Cristo» aveva ammonito lui stesso negli anni della lotta rivoluzionaria. «Io non mi farei mai inchiodare a una croce: combatterò con tutte le armi a disposizione».

 

Massimo Gaggi

 Corriere della Sera di lunedì 20 febbraio 2006


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