La foto
di copertina dice tutto. Scattata nel 1980, mostra Enrico Berlinguer
al comizio conclusivo di una festa dell'Unità. È un uomo d'apparato, il Berlinguer di questa foto. Rigido sul
palco, la giacca impiegatizia, il gesto difficile, il capello corto e magari
tinto. Un segretario politico nella più pura tradizione cominformista. Un Breznev
italiano o un homo sovieticus. Avrebbero
potuto, i grafici dell'Einaudi, scegliere un'altra
immagine per la
copertina. Ad
esempio, quella pubblicata a tutta pagina sull'edizione straordinaria dell'Unità,
il 13 giugno 1984, giorno dei funerali del leader comunista. La foto
che sotto il titolo «Addio» mostrava un sorprendente Berlinguer
in barca a vela. La giacca a vento chiara, i capelli
mossi. Segnato nel viso, sereno nello spirito. Intenso e bellissimo.
Avrebbero potuto, ma avrebbero tradito il messaggio del libro che lo storico
Silvio Pons - il direttore della Fondazione
Istituto Gramsci - ha dedicato a Berlinguer e la fine del comunismo. Dove il
segretario del Pci dal 1972 al 1984 viene rappresentato appunto come un politico incapace di
affrancare il partito dalla sua identità originaria: dall'incancellabile
impronta sovietica. Generoso nelle intenzioni, Berlinguer, e magari coraggioso nel pensiero; eccessivamente
prudente, quasi burocratico, nel lavoro concreto. Soprattutto, legato
fino all'ultimo (vent' anni dopo la morte di Palmiro Togliatti!)
alla consegna togliattiana dell'«unità nella
diversità»: la regola di ferro per cui il Pci
poteva muoversi con autonomia rispetto all'Unione Sovietica, ma non doveva
mai andare a una rottura. Nel suo tentativo di fare
del maggiore partito comunista d'Occidente un partito «di governo» oltreché «di lotta», Berlinguer
fallì per un insieme di ragioni, comprese l'ostilità degli Stati Uniti e la
diffidenza del Vaticano. Tuttavia, secondo Pons, bisogna smetterla di cercare al di fuori del
comunismo le ragioni principali del fallimento. Questo libro sostiene,
e dimostra, che la crisi del Pci va spiegata dal di dentro. Berlinguer fallì
perché si illuse che il comunismo fosse qualcosa di
riformabile. Non cambiò idea neppure a dicembre del 1981, quando il generale Jaruzelski proclamò la legge marziale in Polonia: entro
un paio d'anni, il famoso «strappo» con Mosca venne dal Pci
stesso pazientemente ricucito. Allora, sopra un palco romano del 1983,
incredibilmente Roberto Benigni prese in braccio Enrico Berlinguer,
in una scena di politica-spettacolo alla quale il timido segretario del Pci non aveva certo messo in conto di partecipare. L'anno
seguente, dopo la morte sul campo del leader
comunista, l'immagine si sarebbe fissata nella memoria di molti elettori di
sinistra con i colori della tenerezza e i sapori della nostalgia. Ma abbracci a parte, come ha potuto Benigni dire di Berlinguer che «non era un politico, era un poeta»? Ecco un giudizio che Pons si rifiuta di sottoscrivere. O, piuttosto, un mito nel quale si rifiuta di credere. Se
in politica interna Berlinguer viene
soprattutto ricordato per la strategia del «compromesso storico», in politica
estera la sua creazione più significativa fu l'«eurocomunismo»: un tentativo
di allontanarsi dall'Unione Sovietica e insieme di contribuire alla
costruzione europea. Sulla base di una massa di
documenti inediti, Pons illustra però l'inconsistenza
quasi patetica del modo in cui la teoria eurocomunista
si realizzò nella pratica. I dirigenti del Pci
erano i primi a sapere che non avrebbero mai combinato nulla né con Marchais e il Partito comunista francese né con Carrillo e il Partito comunista spagnolo: l'uno troppo
legato a Mosca, l'altro troppo indipendente. Nondimeno, si aggrapparono all'eurocomunismo
come a una foglia di fico che valeva a nascondere la
loro renitenza a operare, nel contesto di un mondo bipolare, una precisa scelta
di campo: a favore degli Stati Uniti, contro l'Unione Sovietica. In quasi
tutti gli scacchieri dell'attualità politica internazionale degli anni
Settanta, dal Portogallo al Corno d' Africa, i
comunisti italiani contestarono la linea sovietica, spesso aspramente. Ma non andarono alla rottura, perché continuavano a
credere - e se lo scrivevano, comunicando privatamente fra loro - nell'inesauribile
vitalità del modello socialista. Mentre diffidavano ancora
e sempre del modello liberale. Preferivano Henry
Kissinger, il falco repubblicano con la sua logica
da guerra fredda, a Jimmy Carter, il presidente
democratico con la sua religione dei diritti dell'uomo. Ammiravano Willy Brandt, rispettavano Olof Palme: ma li incontravano alla chetichella, per non
dover ammettere in pubblico i meriti della socialdemocrazia. Pons ritiene che anche l'investimento dell'ultimo Berlinguer sulla «diversità» comunista, l'arroccamento
del Pci - all'inizio degli anni Ottanta - contro la
Democrazia cristiana e soprattutto contro il Psi di Bettino Craxi sia stato
una facile scappatoia. Il Pci che sermoneggiava
sulla «questione morale» non era forse espressione
di quella stessa degenerazione partitocratica? È
qui che il libro di Pons, lavoro di storia, tende a
farsi più scoperto nelle sue implicazioni politiche. E più
discutibile, nella misura in cui suggerisce che la responsabilità del «cieco
duello» fra Berlinguer e Craxi
sia stata del primo, comunista impenitente, molto più che del secondo,
statista incompreso. A una recente convention
dell'Unione prodiana, un personaggio dello show
business ha scatenato l'entusiasmo della platea urlando a squarciagola:
«Voglio Berlingueeer!». Forse ignaro, ma non
troppo, di quell'altra anima dell'Unione il cui credo andrebbe recitato con parole usate da Miriam Mafai per il titolo di un suo libro: Dimenticare Berlinguer (Donzelli). Al di fuori della sua dotta
cornice accademica, anche il volume di Silvio Pons
partecipa di questa dialettica ideologica e mediatica:
al punto da far sospettare non casuale la pubblicazione del volume in piena
campagna elettorale. Berlinguer e la fine del
comunismo rappresenta un fermissimo invito a dimenticare Berlinguer.
Giunto in fondo a un libro così severo, il militante
di sinistra potrà scoprirsi entusiasta o perplesso, l'elettore dell'Unione
potrà sentirsi sollevato o deluso. Se perplesso e deluso, il lettore potrà
obiettare all' autore che la politica si fa anche
con i miti. Che il mito della diversità comunista rispetto
alla «questione morale» dovrebbe valere qualcosa ancora oggi, in tempi grami
di consorterie postcomuniste. Che la leggenda nera di Craxi
sfasciacarrozze della sinistra è meno una leggenda di quanto certi
revisionisti non vogliano ora farci credere. E che il mito di Berlinguer poeta della politica è forse preferibile alla
realtà di un leader postcomunista che veleggia da
padrone sopra uno yacht miliardario: cento volte meno carismatico di quell'uomo in barca a vela
nella foto dell'«Addio». Ma al di là delle sue
posizioni di militante o delle sue passioni di cittadino, il lettore di
questo libro dovrà riconoscere che Pons propone un
ragionamento serio e prezioso su ciò che Enrico Berlinguer
è stato davvero nella storia dell'Italia repubblicana. Un politico perbene,
non un grande politico. E un
punto d'arrivo, non un punto di partenza.
Sergio Luzzatto
Corriere della Sera
di venerdì 10 marzo 2006
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