Funziona
pressappoco così. Da una parte l'occidentale, dall' altra
l'interlocutore cinese. Si parla di politica o business. A
un certo punto, l'occidentale propone una lista di nomi, carcerati per reati
d'opinione, nei cui confronti si chiede un atto di buona volontà. Si parla
ancora un po' , ci si saluta. Poi qualcosa succede.
Non sempre, non subito, ma succede. Qualcuno di quella lista trova la strada
di casa, della libertà. E con lui, il rispetto dei diritti
umani fa un passo, mentre la Repubblica popolare può mostrare al mondo il suo
volto aperto e disponibile, ricavandone approvazione e credito.
Funzionano pressappoco così le «liste di Kamm». Chi
maneggia la vischiosa materia dei diritti civili in Cina, le conosce da anni.
Lui, John Kamm, è un ex
businessman americano ora cinquantacinquenne che ha compreso come i fili
dell'interesse e dei grandi principi possano
intrecciarsi con reciproca soddisfazione. Se ne rese conto
nel 1990, quand'era presidente della Camera di commercio americana a
Hong Kong. Successe a un ricevimento offerto dagli
uomini di Pechino nella colonia, si festeggiava l'appoggio dato dalla
comunità dei businessman americani alla classificazione della Cina, da parte
di Washington, come «nazione più favorita» nei commerci. Kamm
- senza particolare premeditazione - fece il nome di un ragazzo di Tienanmen arrestato l'anno prima e
torturato. Aveva letto di lui sul giornale, si
chiamava Yao Yongzhan.
Fece il suo nome, dunque: perché non lo liberate? Fu
guardato storto, i drink parvero tramutarsi in aceto. Però finì bene,
nonostante le pessime premesse, con Yao fuori di
galera e con Kamm avviato a
una inattesa carriera di paladino dei diritti umani. Da allora la partita si
è fatta seria. Nel 1999 l'attività
di Kamm è una fondazione, la Dui Hua (dialogo, in mandarino) con 7
dipendenti nella sede di San Francisco, più 4 ricercatori, operativi negli
Stati Uniti, a Hong Kong e a Parigi. Da un paio d'anni Kamm
ha dismesso ogni attività imprenditoriale,
dedicandosi alla sua creatura. Lo invitano a parlare e illustrare quello che
è diventato un «metodo»: all'Onu e ad Harvard, davanti agli
attivisti di Amnesty International
e alla Brookings Institution;
fioccano premi e riconoscimenti, ministeri chiedono suggerimenti. Il budget
annuo è ormai sui 600 mila dollari, fra donazioni di privati e istituzioni,
con contributi governativi di Usa, Danimarca,
Norvegia, Svezia e Svizzera. Il punto di forza della fondazione Dui Hua è l'archivio. «Nel database sono entrate informazioni su circa 12 mila
persone», spiega Kamm dal suo ufficio californiano.
Non solo detenuti, «ma anche soggetti sotto tiro,
minacciati, con restrizioni della libertà personale». I nomi di tutti
«provengono da fonti accessibili: giornali, sentenze, rapporti di ong. Verificati e
incrociati». Del totale attuale nel database, cioè 4
mila nominativi, 2.700 sono in prigione ora. Per tutti, la
precondizione che si tratti di reati d'opinione e
che sia certo un background nonviolento. La lista di priorità, 250 nomi,
distillata da tale mare magnum, è di volta in volta
affidata allo stesso Kamm, che nei suoi frequenti
viaggi in Cina incontra funzionari degli Esteri e dei tribunali, oppure alle
cancellerie di governi che ne fanno richiesta o a volenterosi manager di aziende che sanno come parlare alle controparti cinesi.
Conta la costanza del dialogo, «perché la disponibilità delle autorità di
Pechino è altalenante». E ai cinesi, popolo
pragmatico per eccellenza, l'approccio fattuale di Kamm, non dispiace: «È molto critico verso la nostra
politica, ma il suo approccio è accettabile. Ama la Cina.
Mostra rispetto. È costruttivo e
realistico», ha sancito una volta il diplomatico Li Baodong. I salvati sarebbero nell'ordine delle centinaia.
Il New York Times Sunday Magazine, tempo fa, ha giocato convinto sul
suggestivo parallelismo con la lista del nazista Schindler
e gli ebrei che salvò nella Polonia occupata. Perché c'è
gente comune, sconosciuta, che - accanto ai dissidenti Xu
Wenli e Jiang Weiping all'attivista uigura Rebiya Kadeer - deve il
rilascio anche al contributo di Kamm.
Tecnica, però: il cuore stia alla larga. «Io cerco -
spiega - di non avere contatti con le persone di cui chiediamo la libertà. Non devo
dare l'impressione di avere a cuore un caso personalmente. E
poi di molti sappiamo l'esito solo dopo tanto tempo». La pratica di Kamm è consapevolmente strumentale, opposta alle
battaglie di principio. L'impiego delle «liste» è - in
sintesi, secondo lui - un match in cui vincono tutti: «Siamo usati
nella misura in cui usiamo, strumentalizzati almeno
quanto strumentalizziamo. Un esempio: se la Cina
subisce una caduta della sua immagine per le politiche commerciali, un passo
sul terreno dei diritti umani, rilasciando detenuti davanti al mondo, funziona
come correttivo». Salvare la faccia, questo conta. E, come diceva Deng Xiaoping, non importa il
colore del gatto, basta che con i topi faccia il suo
dovere: se un carcere cinese si apre e ne esce chi non ci sarebbe dovuto
entrare, va bene. Sempre e comunque.
Marco Del Corona
Corriere della Sera
di martedì 14 marzo 2006
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