VITA DA ITALIANI D’AMERICA
BIANCHI SOLTANTO DI
PELLE
Quando l'opinione
pubblica razzista ci accomunava alla «gente di colore»
«Si
possono sbiancare i negri?» Con questo titolo, il numero 1814 della rivista La Nature, bollettino dell'Académie
des Sciences di Parigi,
pubblicava il 29 febbraio 1908 un articolo di un certo V. Forbin
che spiegava: «Un vecchio dottore di Filadelfia crede di aver scoperto questo
gran segreto. Tutti sanno che i raggi X godono della
proprietà di distruggere la materia colorante della pelle. Basandosi su un
fenomeno debitamente verificato, questo medico si sarebbe dedicato a una serie di esperimenti, iniziati da circa sette anni,
che gli avrebbero fornito risultati tali da non fargli temere di aprire un
istituto, o clinica, in cui la clientela non avrebbe tardato ad affluire». Il
procedimento, proseguiva l'articolo (riassunto da Roberto Renzetti
per la rivista Sapere
dell'ottobre 1984), era semplicissimo: bastava «sottoporsi all'azione dei raggi
X in diverse sedute successive. Testimoni degni di fede assicurano di aver
assistito agli esperimenti. Essi raccontano: dopo una decina di sedute, la pelle
di un negro originario dell'Africa centrale assumeva già una colorazione
marrone chiaro. Prolungando il trattamento si otteneva una tinta olivastra. Con
certi soggetti l'opacità della pelle diventava come quella di un creolo. Alla
trentina (e passa) di trattamenti si raggiungeva lo scopo, proprio in tempo
perché pare che a quel punto la resistenza fisica dei
soggetti venisse meno. In ogni caso la tinta ottenuta dopo trattamenti
prolungati era di "un bel bianco malato"». Un secolo dopo, quell'esperimento demenziale ci fa sorridere amaramente
pensando ai poveretti che andarono incontro a drammatici problemi sanitari per
il sogno (ripreso ai giorni nostri, con sciocchi proseliti al seguito, da un
personaggio come il cantante Michael Jackson) di sbiancarsi. E ci dà l'idea di come dovesse pesare, in quell'America
dove i razzisti del Ku Klux
Klan potevano permettersi di organizzare imponenti
marce davanti al Campidoglio, avere la pelle nera. Basti ricordare come dal
1882 al 1968 in
America siano state linciate 4.743 persone delle quali
3.446 di colore. E come l'urlo belluino del governatore dell'
Alabama George C. Wallace
del 1962 («Segregazione oggi, segregazione domani, segregazione per sempre!»)
avesse solo cristallizzato quanto diceva 105 anni prima Abramo Lincoln. Il
quale, ignorando che sarebbe passato alla storia come un uomo simbolo del
progresso umano, spiegava: «Esiste un naturale disgusto da parte di quasi tutti
i bianchi all'idea di una mescolanza indiscriminata della razza bianca e di
quella negra». Va da sé che essere accostati ai neri, per gli
immigrati italiani in America e soprattutto in alcuni Stati, era un
marchio terribile. Che rendeva ancora più difficile l'inserimento
in una società così diversa dalla nostra. Ce lo
dicono, per esempio, alcune vignette razziste come quella celeberrima che apre
il libro Wop
di Salvatore J.
LaGumina, dove lo sciuscià italiano che lustra le
scarpe a un gagà americano ha spiccati tratti
negroidi. Ce lo dicono certi pregiudizi pseudoreligiosi nel mondo protestante o addirittura
cattolico irlandese intorno al cristianesimo «pagano» degli italiani e alla
loro venerazione per san Calogero, il monaco nero più amato della Sicilia, e la
Madonna nera di Loreto e il Cristo nero di Siculiana
e san Nicola nero di Bari e san Filippo nero di Agira
e san Zeno nero di Verona, tutti testimoni di come i nostri emigrati magari non
fossero neri, però... Ce lo dice infine un processo del 1922, «Rollins versus Alabama», di cui
parla Bénédicte Deschamps
nel saggio «Le racisme anti-italien aux États-Unis», in Exclure au nom de la race. Dove si racconta
di Jim Rollins, un
uomo di colore dell' Alabama che, condannato in primo
grado per «miscegenation» (mescolanza di razze) per
aver avuto rapporti sessuali con una donna bianca, aveva fatto ricorso: «Ma non era bianca, era italiana!». Tesi
accolta dal giudice, che sancì nella sentenza che il procuratore «non aveva potuto
fornire la prova che la femmina in questione, Edith Labue,
fosse bianca». E dunque «non si poteva assolutamente dedurre che ella fosse bianca, né che fosse lei stessa negra o
discendente da un negro». Anche quel nome, Edith Labue, è indicativo. Furono infatti
moltissimi i nostri connazionali che, per sgravarsi almeno di una parte dei
pregiudizi che pesavano loro addosso, cambiarono non solo religione (25 mila
nella sola New York e nel solo 1918, secondo Giuseppe Dall'Ongaro,
biografo di madre Francesca Cabrini) ma addirittura
nome, assumendone uno che «suonasse» angloamericano.
Va da sé che accomunare gli italiani poverissimi dalla pelle biscottata dal
sole e i neri fu, per gli americani razzisti, uno
sbocco naturale. Che arrivava in coda a una lunga storia
di pregiudizi coltivata per secoli da molti protagonisti della cultura
occidentale. Primi fra tutti i grandi viaggiatori che visitarono il Bel Paese a partire dal XVI secolo e che avevano lasciato degli
italiani, soprattutto del Mezzogiorno, ma non solo, giudizi assai poco
lusinghieri. Percy B. Shelley
aveva descritto gli uomini della penisola così: «Possono a stento definirsi
tali: sembrano una tribù di schiavi stupidi e vizzi, e non penso di aver visto
un solo barlume di intelligenza nel loro volto, da
quando ho attraversato le Alpi». Quanto alle donne, «forse le più spregevoli
fra tutte quelle che si trovano sotto la luna; le più ignoranti, le più
disgustose, le più bigotte, le più sporche». Per il ginevrino
Rodolphe Rey, che visita
Roma a metà dell'Ottocento, i laziali vivono in «gruppi di capanne in rovina,
fetide e selvagge, arroccate come nidi di avvoltoio
sui primi contrafforti appenninici: sono i resti delle città latine, oggi
rifugio di una popolazione misera, selvaggia e dedita al brigantaggio». Ma chi si incaricò di dare una patina di «scientificità» a questi
pregiudizi, furono per ironia della sorte, come spiega la Deschamps,
proprio le teorie di una serie di etnologi italiani. Primi fra
tutti Giuseppe Sergi e Luigi Pigorini,
che, pur essendo divisi su molti punti, su uno erano d'accordo. E cioè che l'Italia era stata colonizzata in tempi
antichissimi da una popolazione africana, probabilmente abissina. Una tesi che
oggi diamo per assodata. Ma che
allora fu letta dai razzisti americani come una conferma dei loro pregiudizi.
Tanto più che il messinese Sergi
ci aveva ricamato sopra una catalogazione
«scientifica». Sulla base della morfologia del cranio, scrive ne Le due civiltà
Claudia Petraccone, Sergi
«sosteneva che l'Europa attuale era abitata da due specie differenti, la euroafricana e la euroasica. Una frazione
della specie eurafricana era costituita dalla stirpe
mediterranea che, "dai caratteri fisici dominanti, esterni e interni,
dimostrava che era come una zona di transizione tra l'africana al sud delle
nazioni mediterranee, e l' europea al nord delle
nazioni mediterranee d'Europa"». Cosa potevano
chiedere, di più, i nativisti americani che si
ergevano a difensori della «purezza» americana? L'avvocato George
Custerman, di Philadelphia,
tuonava: «Via questi orribili latini che contagiano la nostra razza,
indeboliscono il nostro sangue, fanno diventare fioca
ogni luce». Il Times-Democrat giungeva a difendere il
linciaggio di New Orleans (dove una folla di ventimila
persone aveva assaltato il carcere per ammazzare undici italiani assolti al
processo per l'uccisione di un poliziotto) come «l'unica maniera possibile per
render sicura la supremazia dei bianchi». Certo, la «nerezza»
era più che altro una forzatura usata in chiave razzista (per esempio dai
padroni delle piantagioni di canna da zucchero della Louisiana che chiamavano i
siciliani «niggers») mai presa sul serio dal
Congresso o tradotta in specifiche legislazioni che somigliassero all'apartheid.
Di più, sostiene Thomas A. Guglielmo, fu proprio e
solo arrivando in America che gli italiani «divennero bianchi e cominciarono a
comportarsi da bianchi». Resta il
fatto che allora, nella pancia di un'America razzista, il sentimento
dominante era quello espresso da uno dei protagonisti di Babbitt,
il romanzo di Sinclair Lewis
del 1922: «Un'altra cosa che dobbiamo fare (...) è tenere questi dannati
stranieri fuori dal Paese. Grazie a Dio stiamo
mettendo un limite all'immigrazione. Questi dagoes e questi hunkies devono imparare che
questo è il paese dell'uomo bianco e che non sono desiderati qui». Che c'entra il «dago» (uno dei
tanti soprannomi degli italiani, tra i quali spiccava «guinea»)
con il Paese dell'uomo bianco?
Sintesi dell'introduzione di Gian Antonio Stella all'edizione
italiana della raccolta di saggi, curata da Jennifer Guglielmo e Salvatore
Salerno, «Gli italiani sono bianchi? Come l'America ha costruito la razza» (pp.
383, 19,50), edita dal Saggiatore
Gian Antonio Stella
Corriere
della Sera di martedì 4 aprile 2006
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