IL LIBRETTO NERO DEL VERO MAO

 

Non sono pochi, in Italia, i politici e gli intellettuali che in questi ultimi anni (non dunque all'epoca della grande infatuazione maoista di tre o quattro decenni fa) hanno pronunciato almeno una volta la frase «Come diceva il presidente Mao...», facendola seguire da qualcuno dei più famosi detti del leader cinese: «Ogni lunga marcia comincia dal primo passo» (Giuliano Amato), «Ribellarsi è giusto» (Massimo D'Alema), «Bastona il cane che affoga» (Mario Pirani), tanto per fare qualche esempio. Né si può dire che il pregiudizio favorevole nei confronti di Mao alberghi soltanto a sinistra: quando D'Alema arrivò a Palazzo Chigi, l'ex presidente Cossiga gli regalò un orologio con il volto del leader cinese. Non fosse che come smentita a quella specie di maoismo latente e inconsapevole che abita la nostra cultura, la comparsa del libro di Chen Ming a quarant'anni esatti dalla Rivoluzione culturale sarebbe da salutare con grande favore. Ma le memorie di questo intellettuale perseguitato rappresentano in se stesse, per la qualità della scrittura non meno che per il contenuto della narrazione, una di quelle letture che non si dimenticano. Di grande interesse è, fin dall'inizio, il racconto della sua vita precedente il comunismo, la descrizione di un'esistenza poverissima oltre ogni nostra immaginazione perché incomparabile con quella di un europeo, per quanto povero fosse, alla stessa epoca. Quando sorge la Repubblica popolare cinese, Chen (che era nato nel 1908) è ormai uscito dalla miseria, attraverso le mille traversie narrate nella prima parte del libro. È infatti professore di storia europea all'università di Nanchino. Proprio per questo, però, diventa bersaglio privilegiato di un regime che considera gli intellettuali in quanto tali come una minaccia. Le pagine che riguardano i cinque anni passati nei laogai, i campi di lavoro forzato della Cina comunista, ci consegnano una realtà incomparabilmente meno nota rispetto agli altri grandi sistemi concentrazionari del Novecento. Ma ci fanno anche vedere all'opera quella macchina totalitaria della «rieducazione» che in Occidente è stata spesso considerata come un modo non violento, o quasi, di trattare gli oppositori. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, Chen e tanti altri intellettuali da «rieducare» sono sollecitati a confessare crimini che non hanno commesso e dei quali spesso non sono mai stati esplicitamente accusati (neppure dopo la riabilitazione, avvenuta nel 1978, Chen riuscirà a sapere di cosa lo si fosse originariamente incolpato). A tal fine devono scrivere e riscrivere di continuo la storia della loro vita, nella speranza, da parte dei carnefici, che infine cedano attribuendosi qualche crimine. La famosa «rieducazione» non è altro, in realtà, che la serie infinita di vessazioni fisiche e psicologiche inferte a Chen perché ammetta una colpa inesistente. Anche la fine della detenzione nei campi di lavoro lo lascia in balia di soprusi continui da parte della polizia e non solo: Chen e la moglie, essendo stati bollati dal regime come nemici, sono infatti alla mercé di chiunque. Raccontando la sua personale esperienza, Chen Ming fornisce al contempo elementi essenziali per comprendere i caratteri della dittatura maoista. Ad esempio, quell'impasto di ferocia e casualità che stava dietro una repressione che assegnava a ciascun ufficio o fabbrica un preciso numero di vittime, da rispettare così come andavano rispettati gli obiettivi della produzione. La stessa moglie di Chen, un'insegnante, cadde vittima di questo meccanismo assurdo: la sua scuola doveva indicare dieci oppositori da colpire e ne mancava uno. L'aggiunta del suo nome servì appunto a rispettare la quota assegnata. Non meno interessante il peculiare modo di considerare (o meglio non considerare) le leggi economiche che si ricava da tante pagine del libro. I lavori che in varie fasi della sua vita di perseguitato Chen si trova obbligato a compiere mostrano bene, infatti, il sommo disprezzo maoista per qualunque calcolo economico. Lasciamo stare il lavoro forzato nei laogai, che aveva uno scopo anzitutto afflittivo. Stupisce di più la campagna per la produzione del ferro avviata a un certo punto dal regime: Chen si trovò tra quanti erano addetti a passare di casa in casa per togliere maniglie a porte e finestre e prelevare ogni altro oggetto in metallo. Questa ferraglia, nel suo caso, era poi trasportata a piedi in una fabbrica distante cinque chilometri, dove alla fine si riusciva con fatica a produrre un pezzo di acciaio di scarsa qualità. «Erano stati utilizzati legna e carbone in gran quantità - è il commento di Chen - porte e finestre erano state rotte per questo pezzo d' acciaio inutilizzabile». Per quanto l'esperienza sembri folle (e dal punto di vista di ogni elementare legge economica certo lo era), essa conferma un carattere dei regimi totalitari già evidenziato da Hannah Arendt: la loro tendenza a vivere integralmente la dimensione ideologica, a fare anzi dell'ideologia l'unica vera realtà. Non a caso, durante la Rivoluzione culturale si giunse, per rispettare appunto le prescrizioni dell'ideologia, a chiudere le fabbriche provocando così un nuovo tracollo economico del Paese. Proprio durante la Rivoluzione culturale la posizione degli intellettuali doveva farsi, se possibile, ancora più pericolosa. A dispetto del nome, infatti, quel movimento, suscitato da Mao per riconquistare il controllo del partito, era animato da un odio cieco per tutte le manifestazioni della cultura. Le guardie rosse, emule inconsapevoli delle camicie brune di Hitler, si accanirono a bruciare i libri. Nemiche giurate di ogni testimonianza del passato, saccheggiarono, trent'anni prima dei talebani, i monasteri buddisti e la stessa tomba di Confucio. Molti intellettuali morirono per le percosse subite; tanti altri, esposti al pubblico ludibrio e ad umiliazioni senza fine, si tolsero la vita. Chen Ming, che visse in Cina fino alla sua morte avvenuta dieci anni fa, non conosceva il numero complessivo delle vittime della Rivoluzione culturale. Ma gli stessi storici lo ritengono incalcolabile, limitandosi a indicarlo in molti milioni.

 

Il libro di Chen Ming, «Nubi nere s'addensano», trad. di Carlo Saletti, pref. di Frediano Sessi, è edito da Marsilio, pagine 224, euro 14

 

Giovanni Belardelli

 

Corriere della Sera di lunedì 27 marzo 2006

 

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