GERMANIA 1945, L’ALTRA FACCIA DELL’ORRORE
Fu vera
Liberazione? Oggi in Germania c' è chi contesta l' idea
dell'allora presidente federale von Weizsäcker, che vent'anni fa
proclamò l'8 maggio (il giorno della resa nazista agli Alleati, con la pace
conseguente) giornata di festa per la Germania. Il motivo? Ne esistono
molti, e tutti insieme pesano soprattutto sulle coscienze dei tedeschi
orientali, che dopo l'arrivo "liberatore" dell'Armata Rossa conobbero
gli orrori dell'occupazione sovietica. Una serie di ragioni che si esprimono
attraverso le cifre: centomila civili liquidati senza pietà, due milioni di
donne e ragazze tedesche violentate, una porzione
enorme degli edifici pubblici e privati saccheggiati e devastati. E non è tutto: in scia ai soldati sovietici con i mitra in
pugno, comparvero presto gli agenti della polizia segreta di Mosca in guanti di
pelle, quelli della famigerata Nkvd staliniana, e
allora le sofferenze di un popolo già martoriato sprofondarono definitivamente
nella disperazione. Centomila tedeschi, soprattutto donne, ragazzi e anziani,
furono caricati su vagoni bestiame e deportati in Unione Sovietica per essere
assoggettati in condizioni estreme ai lavori forzati; più di tre milioni di
prigionieri di guerra finirono nei gulag sovietici,
dove un terzo trovò la
morte. Ma anche in Germania, per
esempio a Buchenwald, Jamlitz
o Sachsenhausen, altri diecimila prigionieri perirono
per fame. Sicché complessivamente si può affermare
che, nell'ambito del territorio occupato dall'Armata Rossa (e qui davvero l'aggettivo
"liberato" suona come una beffa atroce per i parenti delle vittime)
morirono circa due milioni e mezzo di cittadini tedeschi a causa degli stenti,
delle violenze e delle deportazioni. Senza contare i circa
centomila russi e ucraini presenti sul territorio germanico al momento della
caduta di Hitler: tutti, fra addetti ai lavori
forzati e prigionieri di guerra, collaborazionisti ed emigranti,
"infettati" agli occhi di Stalin dal morbo tedesco. Sicché finirono
deportati nei gulag sovietici, dai quali la grande
maggioranza non tornò. Ecco alcune ragioni che inducono a
rifiutare, nonostante le indubbie intenzioni pacificatrici di von Weizsäcker, la data dell'8
maggio quale giorno della Liberazione tedesca. Ne è
convinto lo storico Hubertus Knabe,
direttore del Museo di Berlino-Hohenschönhausen e
autore del libro che oggi divide la Germania, anzi rischia addirittura di
accendere una nuova Historikerstreit, una disputa
storica sulle responsabilità dei due grandi totalitarismi europei, bolscevismo
e nazionalsocialismo. Tag der
Befreiung?, «Giorno della
Liberazione?», intitola Knabe, con un significativo punto interrogativo, il saggio che denuncia
quanto nel dopoguerra la maggioranza del popolo tedesco sapeva, ma non aveva
mai osato dichiarare pubblicamente. Come si può considerare
giorno di festa, si chiede, l'arrivo sul suolo tedesco di soldati nemici,
pronti ad abbandonarsi alla violenza sfrenata? Knabe
racconta episodi impressionanti, in testa a tutti le atrocità
commesse dall'Armata Rossa a Nemmersdorf, dove
donne vecchi e bambini innocenti, o forse colpevoli di appartenere a una
"razza" nemica, vennero sterminati con un colpo alla nuca e
abbandonati sul margine della strada principale. A Königsberg,
l'antica patria di Kant, centinaia di
appartamenti furono devastati, lasciando gli inquilini al freddo, alle
intemperie e senza cibo, provocando la morte dei più deboli e malati. Un
capitolo a parte, particolarmente odioso, è dedicato alle violenze di massa
commesse dai soldati sovietici su donne e ragazze, dalle conseguenze fisiche e
mentali immaginabili. Probabilmente - afferma Knabe -
furono un milione e 400 mila le violenze sessuali
commesse nell'area orientale compresa tra i fiumi Oder
e Neisse: di donne ne morirono 180 mila. In realtà,
il libro potrebbe essere letto come un catalogo degli orrori: le storie dei
centomila tedeschi orientali periti durante le deportazioni a
est, e quelle dei settecentomila semplicemente scomparsi in Unione Sovietica,
inghiottiti nel nulla; quelle di altri popoli, romeni ungheresi jugoslavi o
slovacchi, sottoposti a simili trattamenti. Senza contare le atrocità meno
"spontanee" e più programmate, che gli ufficiali d'occupazione e il
servizio segreto sovietico cominciarono a praticare a partire
dal 1946. E qui si tocca il culmine, perché i
nomi dell'immaginario collettivo legati allo sterminio nazista (Auschwitz, Buchenwald, Jaworzno) indicarono nuovi orrori: svuotati dei vecchi
prigionieri, si riempirono di nuovi "schiavi", condannati a lavorare
in condizioni impossibili fino alla consunzione e alla morte. Corpi rasati,
decine di cadaveri gettati di notte nelle fosse comuni (ad esempio vicino al
lager di Zgoda), sadismo gratuito sui prigionieri
(come quello cui si abbandonava il medico Isidor Cederbaum nel campo di
concentramento di Potulitz): nulla fu risparmiato. E ci fu anche del metodo in questa crudeltà. Per un lungo
periodo successivo alla "liberazione" della
Germania, i soldati dell'Armata Rossa vennero in realtà non solo
autorizzati, ma incoraggiati dalle autorità a commettere violenze. Il motivo: odio razziale e di classe, lo stesso che aveva animato
la logica dello sterminio dei nemici nell'Unione Sovietica prima di Lenin, poi
di Stalin. Ma ci fu anche l'intento di preparare il terreno alla edificazione di una nuova dittatura. Ecco
perché, secondo Knabe, celebrare l'8 maggio significa
ignorare la verità. Ma
non tutti sono d'accordo. Gli antirevisionisti, e una buona parte dell'opinione
pubblica credono o almeno lasciano capire di ritenere che i tedeschi meritassero in fondo una punizione. Altri,
all'opposto, fanno rilevare come al momento del crollo del nazismo, gli
iscritti al partito della croce uncinata fossero ancora ben otto milioni e
mezzo: parlare di "liberazione" sarebbe dunque una finzione, anzi un
comodo alibi per assegnare ai collaborazionisti la patente di vittime. E non
mancano naturalmente gli estremisti di oggi, i neo o
post-nazisti, che cavalcano le tesi di Knabe per
riaprire i conti con la storia e "relativizzare" le colpe di Hitler. Grande è dunque la polemica sotto il cielo di
Germania, tanto da far temere che il polverone ideologico e il disgusto per
tante atrocità finiscano per favorire l'oblio delle vittime. Meglio forse
ricordare la figura vincente di Anna Schmidt, drammatica protagonista del Terzo uomo di Graham Green (e interpretata da Alida Valli nel film di Orson Welles). In fuga da una
spettrale Vienna sovietizzata e strappata in extremis
alla deportazione, nell'ultima scena prende sottobraccio il suo salvatore Martins e si avvia con lui da qualche parte, per
convincersi che domani è sempre un altro giorno.
Il libro: Hubertus
Knabe, «Tag
der Befreiung?», edizioni Propyläen, pagine 353, 24, www.propylaeen-verlag.de
Dario Fertilio
Corriere
della Sera di sabato 8 aprile 2006
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