NELLE VENE DEL CILE
dove l'identità non è un'ossessione


1. L'annuale «Conferenza presidenziale» - voluta da un governo che dimostra un reale interesse per la cultura - si svolge nel palazzo «La Moneda». Quest'anno è toccato a me e, mentre vengo accompagnato alla sala, mi viene mostrata l'ala dell' edificio attaccata dall'aviazione e dall'esercito dei golpisti in quel settembre del 1973 in cui la fellonia di generali traditori, criminosamente subornati dal governo statunitense, poneva fine con la violenza e l'assassinio al tentativo di Allende di creare una democrazia reale, tentativo generoso ancorché messo in atto in maniera politicamente sprovveduta e confusionaria. Il palazzo - progettato da un architetto italiano, Gioacchino Toesca - è stato ovviamente restaurato, non mostra segni di bombe e di morte. La Storia universale è un'alternanza di devastazioni e di lifting che ne spianano le cicatrici, protesi che ne compensano le mutilazioni, deodoranti spruzzati sul tanfo di sangue. Questa chirurgia plastica infonde sollievo per la vita che rinasce e inquietudine per l'oblio che ne consegue; oblio che può essere ulteriore violenza verso le vittime, cancellate una seconda volta, e anche ignara indifferenza facilmente preda di nuove catastrofi. Ma alla Moneda, e in Cile in generale, non si respira oblio né rimozione; si avverte una consapevole, intelligente costruzione del Paese, che sta decollando politicamente ed economicamente con equilibrio ed energia. Il governo - ora concluso, con le elezioni in corso - del presidente Ricardo Lagos ha rivelato un progressismo concreto, moderato e deciso, scevro di quel settarismo adolescenziale e irresponsabile che vota così spesso le sinistre alla sconfitta. Le differenze sociali sono ancora grandi, ma imparagonabili alle moltitudini disperate di tanti altri Paesi sudamericani. Lo staff culturale del presidente, particolarmente creativo e aperto, fervido di iniziative condotte in porto con stile amabile e rigoroso, lascia sperare nell'ulteriore estensione di una classe politica realmente liberaldemocratica. La filosofia politica che aleggia si ispira a Bobbio, non certo a ideologie terzomondiste.

2. Il Caffè Mosqueto, a Santiago. Anamnesi platonica, vedere un luogo per la prima volta e riconoscerlo, ricordarlo come familiare; un luogo dove potrei andare a leggere, scrivere, chiacchierare come nei miei caffé di Trieste o di Torino. I Paesi di lingua spagnola sono incredibilmente ricettivi nei nostri confronti; studenti e lettori sino a quel momento sconosciuti si alzano dai tavoli vicini, vengono a salutarmi come fossi un amico. È sempre stato vacuo - e oggi lo è più che mai - parlare di civiltà come se fossero delle identità precise o, peggio ancora, immutabili. Eppure, in generale, nel mondo ispanico mi sono sempre trovato a mio agio, in un sistema di segni, segnali, consuetudini che mi è congeniale, naturale e mi preserva non certo dal confronto e dal conflitto, possibili e latenti in ogni incontro, ma dall'equivoco, come quando si parla una stessa lingua o si usa una analoga sintassi mentale. Sulla strada andina verso Machuca, oltre i quattromila metri, dopo aver oltrepassato un territorio di grandi cactus, scambio alcune parole con un'india atacameña centenaria, la quale sostiene di essere piuttosto novantenne, mettendo ragionevolmente in dubbio la precisione di registri e memorie di un secolo fa. Io non parlo lo spagnolo, anche se lo capisco senza troppe difficoltà, e lei ha studiato ancor meno l'italiano, ma ci si intende. Dovrei essere grato all'Impero romano e alle sue legioni, grazie alle quali posso parlare con questa donna. Certo, pure queste due chiacchiere sono l'esito lontano di antiche guerre e violenze, Giulio Cesare che fa strage di Galli e i Conquistadores di Indios. Ogni meticciato, poi simbolo di incontro e convivenza, è il risultato di guerre e rapine. Sarebbe meraviglioso varcare le frontiere e fondere le civiltà senza pagare il prezzo di sangue che finora ogni nuova ecumene ha richiesto. Impossibile sogno di una civiltà latina senza le guerre romane, di una civiltà arabo-ispanica senza l' invasione degli arabi prima e la loro cacciata dopo, di una meticcia America latina senza i massacri compiuti dagli aztechi su altri popoli e dagli spagnoli sugli aztechi. Oggi la circolazione globale potrebbe in teoria realizzare per la prima volta queste fusioni in modo pacifico, ma innesca invece spesso duri conflitti. Il bel viso ispano-indio della ragazza che ci fa da guida attraverso la Valle della Luna e il Salar, il lago salato, giustifica le secolari violenze che sono state verosimilmente necessarie per modellarlo?

3. Valle della Luna, Valle della Morte, Cordigliera del Sale, Laguna Chaxa al centro del Salar de Atacama, deserti andini - paesaggi assoluti, sabbia e rocce scolpite dal vento in forme incredibili, cristalli accecanti, non uno stelo d'erba. Qui si capisce che anche le pietre, i cristalli sono vita, anche se diversa da quella che chiamiamo organica; aggregazione che ha le sue leggi, bellezza che ha le sue proporzioni, come la forma di un viso o i petali di un fiore. Fasce di azzurro striano il viola della sera e resistono al nero della notte, il rosa dei fenicotteri in volo svanisce nell'indaco delle montagne - colori, incanto del mondo che forse non esiste, mera illusione dell'occhio che traduce, come un filologo un po' fuor di senno, altezze d'onda della luce. Dove c'è un po' d'erba fra i sassi, si aggirano mandrie di lama; al mattino, l'acqua gelata della notte imprigiona per alcune ore, finché il sole non è alto, le zampe dei fenicotteri. Più in basso, in una vegetazione più ospitale, due struzzi si accoppiano; una danza elegante, inchini e omaggi, un rito composto e lieve che sembra una simulazione.

4. Una delle arterie principali di Santiago porta il nome di O' Higgins, eroe nazionale. E uno dei padri della patria e della sua indipendenza. L'identità cilena infatti è ispanica ma pure inglese, scozzese, italiana; di quest'ultima si è sempre più consapevoli, anche grazie a una presenza attiva e creativa del nostro Istituto di cultura. L'identità cilena è anche india, naturalmente, parola che indica una vasta ed eterogenea varietà di nazioni, lingue, tradizioni, i mapuche del Sud, la lingua kunza degli atacameñi, gli yamana e tante altre genti. Una moltitudine di antiche culture locali, sopravvissute ai massacri e all'emarginazione, che ora si cerca di salvaguardare e tutelare, anche sul piano scolastico, con tutti i problemi e le difficoltà che incontra dovunque ogni tentativo di salvare le diversità dall'appiattimento senza rinchiuderle in ghetti regressivi, inserendole nel grande circuito del mondo - e dunque pure delle culture dominanti - senza che vengano cancellate. Probabilmente, un'impossibile quadratura del circolo. Ma in Cile, a quanto sembra, non si è ossessionati dalla cilenità e anche questo contribuisce a sentirsi liberi, a respirare largo e a guardare ai problemi concreti, che così spesso la febbre identitaria, con la sua ossessiva insicurezza, fa perdere di vista. Si è liberi e signori quando si vive spontaneamente e distrattamente la propria identità, anche complessa e multipla, senza farvi troppo caso e quasi dimenticandola. Ma troppo spesso le drammatiche situazioni storiche, sociali e culturali costringono a viverla in modo tragico.

5. Incantevole Valparaiso, «porto della nostalgia», come si intitola il vecchio romanzo di Salvador Reyes; aria marina di grandi orizzonti lontani e di attracchi familiari, vie che si inerpicano piene di luce e adornate da bizzarri dipinti sulle case, come se la città e la sua vita quotidiana fossero una mostra, in cui l'arte è integrata ariosamente nell' esistenza. Anche qui regnano i colori - quelli mutevoli del mare, a seconda sia vicino o lontano, increspato, terso o irato; quelli delle colline, delle finestre, dei tetti, delle insegne di trattorie di pesce, amabili tappe e soste nell'opaco viaggiare del vivere. Sempre i colori, alfabeto e sillabario del mondo, ma questi non sono i colori assoluti e spietati della Valle della Morte o del Deserto di Sale, bensì quelli caldi, temperati e amabili della vita, del rione di casa. Poco distante Isla Negra, la famosa casa di Pablo Neruda, meta di pellegrinaggi obbligati e devoti in omaggio al vate nazionale e progressista. Ai piedi della scoscesa scogliera, il mare vicinissimo è di una bellezza insostenibile, possenti onde blu notte che si rompono in spume di neve. Anche la casa del poeta, aperta e protesa sui flutti come un bastimento, è bella e ancor più affascinanti ed enigmatiche sono le polene che egli collezionava, con i loro occhi spalancati su incombenti e indecifrabili catastrofi e i loro seni al vento nella veste fluttuante, sirene di un aldilà marino. Questo, che sarebbe ed è un bel museo, è una falsa casa, studiata - anche quando Neruda vi abitava - non tanto per vivere quanto per venir messa in mostra quale scenario di un'esibita vitalità. Ad esempio quella barca incollata a terra, a pochi metri sopra il livello del mare, in cui Neruda, dicono, offriva agli amici e ai visitatori l' aperitivo, è un po' imbarazzante. Una casa può diventare un museo dopo la morte del suo illustre abitatore, chiunque egli sia; la casa di Dostoevskij a San Pietroburgo è quella in cui egli viveva e scriveva, non un prematuro museo postumo. Se si vuole andare sino in fondo nell'inevitabile falsificazione che fa di ogni vita un'automessinscena, bisogna avere il coraggio e il genio di d'Annunzio; il Vittoriale è fasullo, pacchiano e di pessimo gusto, ma lo è in una misura grandiosa, che gli toglie ogni ingenua pretesa «poetica» e lo trasforma in una denuncia e autodenuncia, in una autolesiva beffa della straripante volgarità sempre più vittoriosa. Ma d'Annunzio sapeva quanto precario e di seconda mano fosse il suo ostentato «vivere inimitabile», mentre Neruda, intitolando Confesso che ho vissuto la sua autobiografia, sembra avere l'ingenuità di ostentare una vita passionalmente genuina e muscolosamente compiaciuta dei propri gagliardi peccati, considerati un attestato di pienezza vitale. Neruda ha scritto splendide poesie d'amore e di impegno civile; il suo Canto General è un grande epos di rivolta e liberazione, più che mai necessario in questo continente. Ma confessare orgogliosamente di aver vissuto è un po' retorico, in una condizione umana universale la cui verità sta piuttosto nelle parole di Montale, quando diceva di aver vissuto al cinque per cento e pregava gli amici di non aumentare, nella scritta della sua pietra tombale, la dose.

6. Una geografia loca intitolava Benjamín Subercaseaux il suo libro sul Cile; vecchio libro, certo superato, ma che suggerisce, con la sua descrizione delle bizzarrie del Paese, di concepire pure la critica letteraria quale «geografia umana», come quella del grande Alexander von Humboldt, che studia l'uomo intero collocandolo nel suo paesaggio integrale, che comprende e fonde natura e storia, nel loro incessante e reciproco interagire. Se l'integrazione dell'uomo nella natura e nella storia avveniva, per il classico e goethiano Humboldt, in un Cosmo (così si intitola una sua opera) armonioso, oggi questo rapporto è «loco», folle e stravolto come quella geografia del vecchio Subercaseaux, ed è stata soprattutto la grande letteratura latino-americana a esprimere con grandiosa epicità, grazie all'esasperata disarmonia del proprio mondo, quella del mondo intero. A rappresentare adeguatamente il proliferante caos della nostra vita sono, nell'età contemporanea, quei capolavori che Raffaele La Capria definisce - riconoscendo la loro grandezza con quel disagio e quasi fastidio che sono il segno inequivocabile di quella stessa grandezza - i grandi libri «non riusciti» (Kafka, Musil), le cui tenebre e la cui dismisura sono poeticamente necessarie per far vivere, sentire, toccare, la realtà smisurata e tenebrosa. In un senso analogo, Giovanni Pacchiano ha parlato di grandi libri «imperfetti», facendo l'esempio del grandissimo Nievo. Non sono i gradevoli, utili, consumabili libri di Isabel Allende o di Sepúlveda a farci entrare nei gironi del Cile, bensì le epopee immani e allucinate di José Donoso o di Roberto Bolaño - sconvolgenti e talora ostiche, come la vita e come deve essere un grande libro - che fanno del Cile uno sghembo specchio del mondo.

7. I giornali sono pieni di articoli sul presunto tesoro individuato nell'isola Juan Fernández, la piccola isola di 650 abitanti che è una capitale dell'immaginario universale, perché vi naufragò e visse solitario per anni il marinaio Alexander Selkirk, la cui vicenda ispirò il Robinson Crusoe. Le voci su un tesoro nascosto risalgono al Settecento, al grande commodoro e quasi corsaro inglese George Anson, terribile e avido nemico degli spagnoli e depredatore dei loro galeoni su quei mari, a un capitano spagnolo, Juán Esteban Uribe y Echeverría, ipotetico trasportatore di inestimabili ricchezze dal Messico alla Spagna e ad altre singolari figure. In questa storia, degna di Stevenson, ci sono pure carte cifrate, mappe segnate con croci, maniacali e sfortunati ricercatori di varie epoche e di vari Paesi. La nuova febbre del tesoro, annunciata da una radio locale il 23 settembre scorso, ha spinto gli insegnanti dell'isola a cambiare i programmi e gli argomenti dei temi scolastici, ha promosso assemblee degli isolani per discutere sulla destinazione delle ottocento tonnellate di oro e di gioielli, che l'impresa Wagner Tecnologías proclama di aver ubicato, sulla percentuale da impiegarne per iniziative sociali. Quando i giornalisti hanno tempestato il presidente Lagos di domande su tutta la vicenda, egli ha risposto di essere molto compiaciuto che tanti si occupino di questa faccenda perché, ha detto, è un segno che il Paese non ha gravi problemi e preoccupazioni cui rivolgere le sue attenzioni.

 

Claudio Magris

 

Corriere della Sera di martedì 27 dicembre 2005

 

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