NELLE VENE DEL CILE |
2. Il Caffè Mosqueto, a Santiago. Anamnesi platonica, vedere un luogo per la prima volta e
riconoscerlo, ricordarlo come familiare; un luogo dove potrei andare a
leggere, scrivere, chiacchierare come nei miei caffé di Trieste o di Torino.
I Paesi di lingua spagnola sono incredibilmente ricettivi nei nostri
confronti; studenti e lettori sino a quel momento sconosciuti si alzano dai
tavoli vicini, vengono a salutarmi come fossi un amico. È sempre stato vacuo
- e oggi lo è più che mai - parlare di civiltà come se fossero delle identità
precise o, peggio ancora, immutabili. Eppure, in generale, nel mondo ispanico
mi sono sempre trovato a mio agio, in un sistema di segni, segnali, consuetudini
che mi è congeniale, naturale e mi preserva non
certo dal confronto e dal conflitto, possibili e latenti in ogni incontro, ma
dall'equivoco, come quando si parla una stessa lingua o si usa una analoga
sintassi mentale. Sulla strada andina
verso Machuca, oltre i quattromila metri, dopo aver
oltrepassato un territorio di grandi cactus, scambio alcune parole con un'india
atacameña centenaria, la quale sostiene di essere
piuttosto novantenne, mettendo ragionevolmente in dubbio la precisione di
registri e memorie di un secolo fa. Io non parlo lo spagnolo, anche se
lo capisco senza troppe difficoltà, e lei ha studiato ancor meno l'italiano,
ma ci si intende. Dovrei essere grato all'Impero
romano e alle sue legioni, grazie alle quali posso parlare con questa donna. Certo, pure queste due chiacchiere sono l'esito lontano di
antiche guerre e violenze, Giulio Cesare che fa strage di Galli e i Conquistadores di Indios. Ogni meticciato, poi simbolo di incontro
e convivenza, è il risultato di guerre e rapine. Sarebbe meraviglioso varcare
le frontiere e fondere le civiltà senza pagare il prezzo di sangue che finora
ogni nuova ecumene ha richiesto. Impossibile sogno di una civiltà latina
senza le guerre romane, di una civiltà arabo-ispanica senza l' invasione degli arabi prima e la loro cacciata dopo, di
una meticcia America latina senza i massacri compiuti dagli aztechi su altri popoli e dagli spagnoli sugli aztechi. Oggi la circolazione globale
potrebbe in teoria realizzare per la prima volta queste fusioni in modo pacifico,
ma innesca invece spesso duri conflitti. Il bel viso ispano-indio della
ragazza che ci fa da guida attraverso la Valle della Luna e il Salar, il lago
salato, giustifica le secolari violenze che sono
state verosimilmente necessarie per modellarlo? 3. Valle
della Luna, Valle della Morte, Cordigliera del Sale,
Laguna Chaxa al centro del Salar de Atacama, deserti andini -
paesaggi assoluti, sabbia e rocce scolpite dal vento in forme incredibili,
cristalli accecanti, non uno stelo d'erba. Qui si capisce che anche le
pietre, i cristalli sono vita, anche se diversa da quella che chiamiamo organica; aggregazione che ha le sue leggi,
bellezza che ha le sue proporzioni, come la forma di un viso o i petali di un
fiore. Fasce di azzurro striano il viola della sera
e resistono al nero della notte, il rosa dei fenicotteri in volo svanisce
nell'indaco delle montagne - colori, incanto del mondo che forse non esiste,
mera illusione dell'occhio che traduce, come un filologo un po' fuor di
senno, altezze d'onda della luce. Dove c'è un po' d'erba fra i sassi, si
aggirano mandrie di lama; al mattino, l'acqua gelata
della notte imprigiona per alcune ore, finché il sole non è alto, le zampe
dei fenicotteri. Più in basso, in una vegetazione più ospitale, due struzzi
si accoppiano; una danza elegante, inchini e omaggi,
un rito composto e lieve che sembra una simulazione. 4. Una
delle arterie principali di Santiago porta il nome di O' Higgins, eroe nazionale. E uno dei padri della patria e della sua indipendenza. L'identità
cilena infatti è ispanica ma pure inglese, scozzese,
italiana; di quest'ultima si è sempre più
consapevoli, anche grazie a una presenza attiva e creativa del nostro
Istituto di cultura. L'identità cilena è anche india, naturalmente, parola
che indica una vasta ed eterogenea varietà di nazioni, lingue, tradizioni, i mapuche del Sud, la lingua kunza
degli atacameñi, gli yamana
e tante altre genti. Una moltitudine di antiche
culture locali, sopravvissute ai massacri e all'emarginazione, che ora si
cerca di salvaguardare e tutelare, anche sul piano scolastico, con tutti i
problemi e le difficoltà che incontra dovunque ogni tentativo di salvare le
diversità dall'appiattimento senza rinchiuderle in ghetti regressivi,
inserendole nel grande circuito del mondo - e dunque pure delle culture
dominanti - senza che vengano cancellate. Probabilmente, un'impossibile
quadratura del circolo. Ma in Cile, a quanto sembra,
non si è ossessionati dalla cilenità e anche questo
contribuisce a sentirsi liberi, a respirare largo e a guardare ai problemi
concreti, che così spesso la febbre identitaria,
con la sua ossessiva insicurezza, fa perdere di vista. Si è liberi e signori
quando si vive spontaneamente e distrattamente la propria identità, anche
complessa e multipla, senza farvi troppo caso e quasi dimenticandola. Ma troppo spesso le drammatiche situazioni storiche,
sociali e culturali costringono a viverla in modo tragico. 5. Incantevole
Valparaiso, «porto della nostalgia», come si intitola il vecchio romanzo di Salvador Reyes; aria marina di grandi orizzonti lontani e di
attracchi familiari, vie che si inerpicano piene di luce e adornate da
bizzarri dipinti sulle case, come se la città e la sua vita quotidiana
fossero una mostra, in cui l'arte è integrata ariosamente nell' esistenza. Anche qui regnano i colori - quelli mutevoli del mare, a
seconda sia vicino o lontano, increspato, terso o irato; quelli delle
colline, delle finestre, dei tetti, delle insegne di trattorie di pesce,
amabili tappe e soste nell'opaco viaggiare del vivere. Sempre i colori,
alfabeto e sillabario del mondo, ma questi non sono i colori assoluti e
spietati della Valle della Morte o del Deserto di Sale, bensì quelli caldi,
temperati e amabili della vita, del rione di casa. Poco
distante Isla Negra, la famosa casa di Pablo Neruda, meta di
pellegrinaggi obbligati e devoti in omaggio al vate nazionale e progressista.
Ai piedi della scoscesa scogliera, il mare vicinissimo è di
una bellezza insostenibile, possenti onde blu notte che si rompono in spume
di neve. Anche la casa del poeta, aperta e
protesa sui flutti come un bastimento, è bella e ancor più affascinanti ed
enigmatiche sono le polene che egli collezionava, con i loro occhi spalancati
su incombenti e indecifrabili catastrofi e i loro seni al vento nella veste
fluttuante, sirene di un aldilà marino. Questo, che sarebbe ed è un bel
museo, è una falsa casa, studiata - anche quando Neruda
vi abitava - non tanto per vivere quanto per venir messa in mostra quale
scenario di un'esibita vitalità. Ad esempio quella barca incollata a terra, a
pochi metri sopra il livello del mare, in cui Neruda,
dicono, offriva agli amici e ai visitatori l' aperitivo,
è un po' imbarazzante. Una casa può diventare un museo dopo la morte del suo
illustre abitatore, chiunque egli sia; la casa di Dostoevskij a San Pietroburgo è
quella in cui egli viveva e scriveva, non un prematuro museo postumo. Se si vuole
andare sino in fondo nell'inevitabile falsificazione che fa di ogni vita un'automessinscena,
bisogna avere il coraggio e il genio di d'Annunzio; il Vittoriale
è fasullo, pacchiano e di pessimo gusto, ma lo è in una misura grandiosa, che
gli toglie ogni ingenua pretesa «poetica» e lo trasforma in una denuncia e autodenuncia, in una autolesiva
beffa della straripante volgarità sempre più vittoriosa. Ma
d'Annunzio sapeva quanto precario e di seconda mano fosse il suo ostentato
«vivere inimitabile», mentre Neruda, intitolando Confesso che ho vissuto la sua
autobiografia, sembra avere l'ingenuità di ostentare una vita passionalmente
genuina e muscolosamente compiaciuta dei propri gagliardi peccati,
considerati un attestato di pienezza vitale. Neruda
ha scritto splendide poesie d'amore e di impegno
civile; il suo Canto General è un grande epos di
rivolta e liberazione, più che mai necessario in questo continente. Ma confessare orgogliosamente di aver vissuto è un po'
retorico, in una condizione umana universale la cui verità sta piuttosto
nelle parole di Montale, quando diceva di aver vissuto al cinque per cento e
pregava gli amici di non aumentare, nella scritta della sua pietra tombale,
la dose. 6. Una
geografia loca intitolava Benjamín
Subercaseaux il suo libro sul Cile; vecchio libro,
certo superato, ma che suggerisce, con la sua descrizione delle bizzarrie del
Paese, di concepire pure la critica letteraria quale «geografia umana», come
quella del grande Alexander von
Humboldt, che studia l'uomo intero collocandolo nel
suo paesaggio integrale, che comprende e fonde natura e storia, nel loro
incessante e reciproco interagire. Se l'integrazione dell'uomo nella natura e
nella storia avveniva, per il classico e goethiano Humboldt, in un Cosmo (così si intitola
una sua opera) armonioso, oggi questo rapporto è «loco», folle e stravolto
come quella geografia del vecchio Subercaseaux, ed è
stata soprattutto la grande letteratura latino-americana a esprimere con
grandiosa epicità, grazie all'esasperata disarmonia
del proprio mondo, quella del mondo intero. A rappresentare adeguatamente il
proliferante caos della nostra vita sono, nell'età contemporanea, quei
capolavori che Raffaele La Capria
definisce - riconoscendo la loro grandezza con quel disagio e quasi fastidio
che sono il segno inequivocabile di quella stessa grandezza - i grandi libri
«non riusciti» (Kafka, Musil),
le cui tenebre e la cui dismisura sono poeticamente necessarie per far
vivere, sentire, toccare, la realtà smisurata e tenebrosa. In un senso
analogo, Giovanni Pacchiano ha parlato di grandi libri «imperfetti», facendo
l'esempio del grandissimo Nievo. Non sono i gradevoli, utili, consumabili
libri di Isabel Allende o di Sepúlveda a farci
entrare nei gironi del Cile, bensì le epopee immani e allucinate di José Donoso o di Roberto Bolaño - sconvolgenti e talora ostiche, come la vita e
come deve essere un grande libro - che fanno del Cile uno sghembo specchio
del mondo. 7. I
giornali sono pieni di articoli sul presunto tesoro
individuato nell'isola Juan Fernández,
la piccola isola di 650 abitanti che è una capitale dell'immaginario
universale, perché vi naufragò e visse solitario per anni il marinaio Alexander Selkirk, la cui
vicenda ispirò il Robinson Crusoe.
Le voci su un tesoro nascosto risalgono al Settecento, al grande
commodoro e quasi corsaro inglese George Anson, terribile e avido nemico degli spagnoli e
depredatore dei loro galeoni su quei mari, a un capitano spagnolo, Juán Esteban Uribe y Echeverría, ipotetico
trasportatore di inestimabili ricchezze dal Messico alla Spagna e ad altre
singolari figure. In questa storia, degna di Stevenson,
ci sono pure carte cifrate, mappe segnate con croci, maniacali e sfortunati
ricercatori di varie epoche e di vari Paesi. La
nuova febbre del tesoro, annunciata da una radio locale il 23 settembre
scorso, ha spinto gli insegnanti dell'isola a cambiare i programmi e gli
argomenti dei temi scolastici, ha promosso assemblee degli isolani per
discutere sulla destinazione delle ottocento tonnellate di oro
e di gioielli, che l'impresa Wagner Tecnologías
proclama di aver ubicato, sulla percentuale da impiegarne per iniziative
sociali. Quando i giornalisti hanno tempestato il presidente Lagos di domande
su tutta la vicenda, egli ha risposto di essere
molto compiaciuto che tanti si occupino di questa faccenda perché, ha detto,
è un segno che il Paese non ha gravi problemi e preoccupazioni cui rivolgere
le sue attenzioni. Claudio Magris Corriere della Sera
di martedì 27 dicembre 2005 |