LE RAGIONI DELL’OPPOSIZIONE A BOLKENSTEIN

 

La liberalizzazione del commercio incontra spesso forti resistenze. Esempi recenti includono le preoccupazioni per il notevole incremento delle importazioni tessili dalla Cina all’interno dell’Unione Europea (dovuto alla scadenza dell’accordo multifibre) nonché le proteste in Francia e in altri paesi europei contro la cosiddetta direttiva Bolkestein, che consente a un fornitore di servizi di un dato paese membro Unione europea di lavorare temporaneamente in un altro paese membro, applicando il regime di legge del paese di origine. Così, l’idraulico o la parrucchiera polacchi possono offrire i loro servizi in Francia, senza essere vincolati dalle norme sul lavoro francesi o da altri regolamentazioni locali, ammesso che la loro permanenza sul suolo francese sia sufficientemente breve.
Un modo di guardare a tale riforma è che amplia semplicemente la gamma dei prodotti commerciabili: il taglio dei capelli e il lavoro dell’idraulico possono essere ora acquistati "in Polonia", con la particolarità che il lavoratore chiamato a svolgere il servizio deve essere "spedito" in Francia, una forma particolare di costi di trasporto.
Mentre le proteste puntano sul fatto che le leggi francesi impongono tasse sul lavoro più alte che in Polonia, in realtà la vera questione è che i salari polacchi sono un terzo di quelli francesi (e rimarrebbero molto più bassi anche con leggi sul lavoro simili), cosicché le parrucchiere e gli idraulici francesi temono di scomparire. Preoccupazioni simili sono state espresse per i posti di lavoro persi nel tessile a causa delle importazioni di prodotti cinesi.

La teoria economica

Normalmente, gli economisti interpretano le resistenze a riforme di questo tipo attraverso le lenti del teorema di Stolper-Samuelson: i rendimenti di un fattore la cui offerta è relativamente scarsa sono destinati a ridursi quando l’economia si apre al commercio. Così, se non si possono introdurre trasferimenti compensatori, alcuni gruppi sociali si opporranno alla liberalizzazione.
Il problema con questa posizione è che si deve guardare alle parrucchiere francesi come a una parte di un gruppo più ampio: i lavoratori "non qualificati". I quali, se in scarsa offerta rispetto all’Est, soffrirebbero di ogni commercio in beni in cui è prevalente l’uso del fattore di lavoro non qualificato. Non c’è dunque alcuna ragione per cui le parrucchiere francesi dovrebbero preoccuparsi delle parrucchiere polacche e non, per esempio, delle lavoratrici tessili di quel paese, o della concorrenza dei milioni di disoccupati senza alcuna specializzazione presenti nel mercato del lavoro francese. Inoltre, se ci sono solo poche categorie di lavoratori qualificati, il commercio in quel piccolo numero di beni è sufficiente a determinare un livellamento del prezzo dei fattori. Ulteriori ampliamenti della gamma dei beni commerciabili non dovrebbero avere alcun effetto negativo aggiuntivo sul fattore in scarsa offerta, mentre possono avere effetti benefici in presenza di rendimenti crescenti di scala.
Ma allora il fatto che i produttori di un bene protestino per la concorrenza di altri produttori dello stesso bene e i possessori di un fattore si lamentino per l’eccessiva abbondanza di quel fattore all’estero, ci dice che in realtà il mercato del lavoro non funziona così bene come nella teoria di Hecksher-Ohlin. Se i mercati del lavoro fossero perfetti, ogni effetto negativo della liberalizzazione del taglio dei capelli si diluirebbe nell’economia sotto forma di più bassi salari per i non qualificati e non ricadrebbe in particolare sulle parrucchiere. Tuttavia, se i mercati del lavoro sono segmentati, e dunque passare a un’altra occupazione è difficile almeno nel breve periodo, allora ogni occupazione diviene un diverso tipo di fattore lavoro. Ed è perciò immaginabile che la liberalizzazione del commercio del taglio di capelli abbia più ampi effetti negativi sulle parrucchiere francesi, alle quali è impedita la ricollocazione in altre occupazioni. Occupazioni che a loro volta sono protette dalle pressioni al ribasso sui salari dei non qualificati indotte dalla riforma. Così, le rigidità del lavoro fanno sì che le perdite si concentrino sulle occupazioni liberalizzate.
Si dovrebbe anche aggiungere che barriere normative all’ingresso giocano un ruolo importante nel generare la segmentazione del mercato del lavoro. (1)
E se le barriere non esistessero, le professioni che ora sono minacciate dalla direttiva Bolkestein, avrebbero già sofferto dalla competizione dei disoccupati. In un paese come il Regno Unito, queste barriere sono di gran lunga minori e di conseguenza molto minore l’opposizione alla direttiva. A causa della maggiore mobilità del lavoro, l’attuale commercio dei beni già determina il prezzo dei fattori, e nessuno si aspetta molti effetti (sul lato della disuguaglianza) quando si avranno ulteriori liberalizzazioni.

Gli effetti della liberalizzazione

In un mio lavoro analizzo gli effetti distributivi delle riforme del commercio quando i mercati del lavoro sono segmentati, ipotizzando per semplicità che esistano solo due paesi, l’Est e l’Ovest.
Un risultato chiave è che esiste davvero una classe di lavoratori dell’Ovest penalizzati a causa della concorrenza dei lavoratori dell’Est, che non può ricollocarsi in altre attività.
Esiste infatti un effetto "ragioni di scambio" che favorisce l’Est. Questo perché, per ipotesi, i beni per i quali la produttività relativa dell’Ovest è più alta, sono già commerciabili. In linea di principio, questo effetto può essere sufficientemente forte da generare perdite nette dal commercio per l’Ovest, anche in caso di perfetta mobilità. Sebbene i miei calcoli suggeriscano che questo è improbabile.
Se il lavoro è ex post immobile, si formeranno gruppi contrari alla riforma in entrambi i paesi. All’Ovest i produttori dei nuovi prodotti commerciabili perdono sempre. D’altra parte, i produttori di prodotti non scambiati non possono perdere, né può perdere il paese nel suo insieme. All’Est, i produttori dei beni scambiati, che devono affrontare all’interno un più elevato livello dei prezzi, ma non possono ricollocare al valore più alto i nuovi beni commerciabili, perdono perché il prezzo dei loro stessi beni, che ora riflette anche la domanda dell’Ovest, cresce meno del livello interno dei prezzi al consumo. Se la liberalizzazione è marginale, pochi individui perdono "molto" nell’Ovest, mentre molti individui perdono "poco" nell’Est.
Le conseguenze di politica economica di queste osservazioni dipendono in modo cruciale da come si immagina che i diversi gruppi influenzino le scelte collettive. Se gli individui si limitano a votare, una liberalizzazione marginale incontrerà un’opposizione più forte all’Est che all’Ovest. Ma ipotesi alternative portano alla conclusione opposta: ad esempio, nel caso in cui gli elettori non si preoccupino per perdite piccole, oppure se i gruppi che perdono molto riescono a organizzarsi per bloccare la riforma. E ci potrebbe essere un’opposizione più forte all’Ovest anche nel caso in cui gli elettori abbiano una percezione migliore degli effetti diretti, rispetto agli effetti indiretti, delle scelte di policy sul loro benessere. Rendersi conto delle perdite è molto più semplice per i produttori dei beni ora commerciabili dell’Ovest di quanto non sia, per i produttori dell’Est, accorgersi che l’indice dei prezzi al consumo cresce più del loro stesso salario.
Poiché i produttori dell’Ovest di beni commerciabili guadagnano dalla liberalizzazione, i gruppi sociali che si oppongono a una data riforma, una volta che questa sia realizzata, sono a favore di ulteriori riforme. In altre parole, questi produttori perdono meno, o perfino guadagnano, se diviene commerciabile un insieme ampio e non ristretto di beni. Ma se con un’ampia riforma le perdite sono minori, il numero dei "perdenti" è ovviamente più grande. Di conseguenza, se una riforma ampia è politicamente più sostenibile di una di ambito ristretto, dipende dal fatto che grandi gruppi o piccoli gruppi di agenti con una forte motivazione siano più efficienti nel bloccare la riforma.
Se il lavoro è immobile all’Ovest, ma non all’Est, tutti i lavoratori dell’Est saranno a favore della liberalizzazione perché beneficiano sia di una più efficiente allocazione della produzione sia del miglioramento delle ragioni di scambio. Quanto all’Ovest, guadagni e perdite sono meno uniformemente distribuiti rispetto al caso in cui il lavoro sia immobile in entrambi i paesi. I produttori dei beni ora commerciabili perdono molto di più, i produttori di beni già commerciabili guadagnano di più e il paese nel suo insieme e i produttori di beni non commerciabili possono ora anche perdere. È questo lo scenario che probabilmente genera la più fiera opposizione a Ovest. Questo risultato fa luce sull’osservazione casuale che i paesi Unione europea che si oppongono alla direttiva (per esempio, la Francia) hanno un’elevata regolamentazione del mercato del lavoro, mentre quelli relativamente deregolati, per esempio il Regno Unito, sono a favore della direttiva.

Gilles Saint-Paul

(1)  Queste barriere sono ben documentate. Per il caso francese, vedi Cahuc e Kramarz (2004).

www.lavoce.info del 22 novembre 2005

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