PROFESSIONE CAVIA
Come sarebbe a dire gratis? A tutti chi…?
Ed è in questa anomalia tutta
indiana, un sistema sanitario efficiente con medici formati in buone università
di lingua inglese, non senza alcun medicamento da somministrare gratuitamente,
che si apre la finestra del nuovo straordinario business: trasformare il paese
nella Mecca degli studi clinici, il luogo ideale per le aziende farmaceutiche
di tutto il mondo per portare avanti sperimentazioni di farmaci a basso costo.
Perché i pazienti sono milioni, si ammalano sempre più delle patologie che
affliggono l’Occidente – ai cui mercati sempre e comunque
le aziende guardano – e alimentano una domanda di farmaci enorme. Un piccolo numero
di persone (circa il 5 per cento) può pagarseli, ma la maggior parte no: le
stime parlano di un 65 per cento di persone che non ha
accesso ad alcuna terapia, e di un 35 che, invece, riesce ad avere vecchi
farmaci poco costosi, ma è esclusa dalle nuove terapie. Un numero eccezionale
di malati disposti a tutto pur di avere una cura che, insieme a una buona struttura ospedaliera, sono esattamente quanto
serve a fare dell’India l’Eldorado biomedico del
nuovo secolo.
Tanto che l’agenzia McKinsey stima che, entro il 2010, le aziende americane ed
europee spenderanno un miliardo e mezzo di dollari l’anno per fare studi
clinici nel subcontinente. Lodevole per trasparenza, l’amministratore delegato
della GlaxoSmithKline, Jean-Pierre
Garnier, ha dichiarato: “Stiamo cercando di spostare
il 30 per cento dei nostri studi clinici in paesi a basso costo”. E così fan
tutti, anche se non lo dicono: esasperando un trend iniziato nel decennio scorso quando, stima il rapporto “The globalization
of Clinical Trias” del ministero della Salute
americano, il numero delle sperimentazioni condotte nei paesi in via di
sviluppo è aumentato di 16 volte. La ragione è semplice: uno studio clinico
condotto negli Usa e in Europa costa non meno di 180 milioni di dollari, in
India può arrivare a costare un decimo, perché un decimo costano
i medici ospedalieri, i tecnici di laboratorio, i biostatistici
e le strutture ospedaliere in generale.
Migliaia e migliaia di individui
che affollano questi grandi ospedali dignitosamente sgangherati in cerca di una
cura che non c’è. A meno di accettare un farmaco sperimentale che garantisce
non solo la terapia farmacologia, ma anche quel contorno di esami,
test diagnostici, farmaci di supporto necessari a monitorare la malattia e
l’efficacia del farmaco. Tutta una parafernalia
medica che i nostri ospedali svolgono di routine, ma che, da queste parti, è un
lusso che pochi possono permettersi. “Chi partecipa a uno studio sul diabete, per esempio, potrà avere
gratuitamente la macchina per monitorare da sé i livelli glicemici, che
altrimenti non potrebbe certamente comprarsi”, spiega Shashank
Joshi, endocrinologo del Livalati
Hospital di Mumbai.
Il dottor Joshi è convinto che i
trial siano una cosa buona per la povera gente, un
mezzo per accedere a cure di standard elevato. Non avendo denari per pagarsele,
i più suppliscono, senza accampare diritti, con quel che hanno: un corpo
malato. Cavie? “Perché mai?”, commenta Ramesh B. V. Nimmagaddan, direttore della divisione di
Oncologia medica dell’Apollo Specialità Hospital di Madras: “In India
non più del 30 per cento dei malati ha accesso alle terapie. In questa quota
includo un gran numero di piccoli commercianti, dipendenti statali, gente che
non può permettersi farmaci, magari efficaci ma vecchi, non le nuove terapie. Allora, con gli studi clinici noi possiamo curare anche la povera
gente, e sottoporre alle nuove e costose terapie una fetta di ceto medio che vi
aspira perché sa che esistono e si dispera perché non se le può permettere.
Ma non li mandiamo allo sbaraglio: tutto è approvato dai nostri comitati etici
e i pazienti vengono seguiti al meglio”.
Guai, oggi, a parlare di cavie
umane nei grandi ospedali indiani tutti protesi ad accaparrarsi studi clinici. Le nuove star qui sono i grandi
“arruolatori”, come si chiamano i medici che riescono
a trovare i pazienti giusti per uno studio. Chi convince un’azienda ottiene
farmaci gratis, personale specializzato e soldi. Commenta Pankay
M. Shah, oncologo del Gujarat
Cancer & Research Institute di Ahmedabad:
“In India ci sono strutture di eccellenza dove c’è tutto. Tutto, tranne i
soldi”. Diventare la Mecca degli studi clinici è oggi la grande
opportunità per questa classe medica. E nessuno
vuole sentire parlare di rischio di arruolare pazienti che, se solo potessero
permetterselo, si guarderebbero bene dal fare da cavie. Eppure è lo stesso
rapporto del ministero Usa a sottolineare che “la Food
and Drug Administration
(l’ente Usa che sovraintende a sperimentazioni e
commercio di farmaci) non può assicurare all’estero il medesimo livello di
protezione dei soggetti umani che assicura nelle sperimentazioni fatte sul territorio
Usa”.
La burocrazia sanitaria con questa fra setta mette le mani
avanti, ma è del tutto disarmata di fronte al fatto
semplice semplice che, mentre soltanto un americano o
un europeo su 350 accetta di partecipare a studi clinici, gli aspiranti cavie
nel subcontinente sono milioni.
“Un posto come questo, con questi volumi di malati, è una
manna per la ricerca”, commenta Deepak Sahasrabudhe, professore alla University
of Rochester School of
Medicine, cervello emigrato in Occidente, ma molto attento a quanto accade nel
paese di origine. E con ciò da voce a una nascente
comunità scientifica di livello internazionale, determinata a non lasciarsi
sfuggire l’opportunità del nuovo rinascimento biomedico
indiano: sfruttare l’immenso bacino di malati indigenti o quasi, per attrarre i
denari dell’industria con cui modernizzare i reparti, mettere in piedi
strutture di laboratorio. Insomma, fare ricerca e proiettarsi dalla periferia
stracciona al cuore dell’intrapresa medico-scientifica
mondiale.
A muovere il rinascimento biomedico
indiano è una comunità scientifica fino a oggi
relegata a emigrare o a operare dentro strutture che si reggono a malapena in
piedi, prive di ognuno di quei mille apparecchi che servono oggi a una sanità
moderna; destinata a usare farmaci copia prodotti dalle aziende indiane mimando
le molecole brevettate dai big dell’industria internazionale. Una comunità,
però, che comincia a contare i milioni di malati indigenti e che scopre che
grazie a loro può giocare in serie A, smetter di copiare farmaci, partecipare
alle scoperte.
Sono questi professori raffinati, colti ed eleganti, che
hanno fatto esperienza negli Usa e in Europa, i pasdaran
del nuovo Rinascimento: spingono sul governo, offrendogli posti di lavoro e
milioni di cicli di farmaci gratis, perché renda sempre più appetibile per le aziende l’arena indiana. E in
questo hanno pieno successo. Il governo è estremamente
cooperativo, concordano gli uomini delle aziende: concede sgravi sui
finanziamenti e cerca di contenere i tempi burocratici, la bestia nera di chi
vuole mandare un farmaco sul mercato. Basti pensare che in Europa, per ottenere
l’autorizzazione a fare uno studio clinico, servono montagne di carte e circa
120 giorni; in India il tempo di giacenza delle carte sui
tavole dei burocrati si aggira sui 60 giorni e il governo ha promesso di
dimezzare i tempi.
“Sono preoccupato. E realmente
impaurito di questa velocizzazione degli studi”, ha
dichiarato Stan Woollen,
vicedirettore della divisione Sperimentazioni umane della Fda.
Verifiche multiple, lunghe procedure, mille accorgimenti: i lacci e lacciuoli che imbrigliano in Occidente gli sperimentatori medici sono anche, ai nostri occhi, garanzia di eticità e
buona scienza. La lentezza della ricerca è il combustibile con cui si
alimentano gli apparati che ne permettono il controllo sociale.
Ma, visto da Est, il controllo
sociale sembra un lusso, se non un bizantinismo. “Fare studi clinici significa
permettere al nostro sistema ospedaliero di crescere e offrire ai pazienti
delle opportunità che altrimenti non avrebbero”, taglia corto Purvish Parikh, direttore
dell’Oncologia medica del Tata Memorial
Cancer Research Center:
“Tutti i pazienti arruolati firmano un consenso informato, sanno bene che tipo
di farmaci ricevono e cosa accadrà. Tutto è per il loro bene.” Rassicurante, ma
un po’ incongruo con milioni di poveri, analfabeti, mendicanti: non è che magari è un po’ più semplice ottenere il consenso
informato da un mendicante di Mumbai che da un
idraulico di Cambridge? “I mendicanti da noi non arrivano neanche”, risponde
algido l’oncologo medico: “E se non riusciamo a spiegare bene le cose perché il
paziente o i suoi famigliari non capiscono, lo escludiamo dallo studio”.
Purvish Parikh
si è formato nel cuore della medicina scientifica e democratica,
A volte, si può cadere nella tentazione di accorciare i
tempi, di per sé lunghissimi, di una sperimentazione:
Daniela Minerva
L’espresso
del 12 gennaio 2006