IL KALASHNIKOV NELLE URNE |
Le
anticipazioni del quotidiano israeliano Haaretz,
secondo cui gli Usa e l'Europa disconoscerebbero un governo palestinese di
cui facesse parte il movimento armato Hamas, non
hanno finora ricevuto conferme o smentite. Ma ciò
nulla toglie alla loro verosimiglianza. Hamas
prevede nel suo statuto la distruzione dello Stato di Israele.
Hamas ha rivendicato almeno 60 attacchi
terroristici contro obiettivi civili israeliani. Hamas
è sulla lista nera delle organizzazioni stragiste tanto in America quanto in
Europa. Come si potrebbe far finta di nulla, allora,
se Hamas conquistasse nelle elezioni di domani un
consenso tanto forte da aprirgli le porte del futuro governo palestinese? Con
una rottura secca o più probabilmente con misure selettive, americani ed
europei non potrebbero tradire i codici di comportamento che essi stessi si
sono dati. Ma non possono neppure ignorare,
americani ed europei, che la posta in gioco è notevolmente più complessa della
risposta da dare a Hamas. L'Autorità palestinese
del dopo-Arafat punta a confermare l'egemonia del
partito Fatah. Ma il
presidente Mahmoud Abbas
continua a proiettare debolezza e provvisorietà, il ritiro israeliano da Gaza
invece di rafforzarlo ha moltiplicato le divisioni all'interno della sua
formazione, dal carcere israeliano dove è rinchiuso il «giovane» Marwan Barghouti si scaglia
contro la corruzione ormai endemica del vecchio gruppo dirigente, la base
elettorale contesta il poco o nulla che è stato fatto da Fatah.
E così cresce l'alternativa Hamas.
La responsabilità di aver spinto tanti palestinesi a
una scelta disperata appartiene a molti. Ma nessun progresso potrà essere
compiuto se Gerusalemme (ben prima degli americani e degli europei) si
troverà davanti un Hamas «di attentato
e di governo», pronto come ha detto ieri a negoziare tramite un mediatore ma
assai meno pronto a mettere da parte Kalashnikov e
cinture esplosive. La mancanza di un interlocutore palestinese accettabile,
oltretutto, creerebbe danni anche nel dopo-Sharon
politico che Israele vive in attesa delle sue
elezioni di marzo. Ehud Olmert
può far vincere la voglia di pace sicura che mantiene Kadima
in testa ai sondaggi. Ma il metodo unilaterale
utilizzato da Sharon per ritirarsi da Gaza richiede
un peso politico personale che Olmert e i suoi
concorrenti per il momento non hanno, e del resto è difficile immaginare che
lo schema dei due Stati in pace tra loro possa fare a meno di formali
negoziati tra israeliani e palestinesi. Negoziati con un potere comprendente Hamas? Le elezioni palestinesi, oltre a condizionare
quelle israeliane, possono rovesciare del tutto un tavolo
negoziale da troppo tempo deserto. I palestinesi votano, Hamas partecipa per la prima volta, e il mondo deve
augurarsi che perda. La nostra inquietudine non può ignorare che nell'esportazione
della democrazia tanto cara a Bush (e sulla carta a
tutti noi) qualcosa non funziona. Ovunque nel mondo musulmano lo strumento
elettorale ha fatto avanzare o vincere signori della guerra neo-pentiti
(Afghanistan), partiti religiosi (Iraq), formazioni radicali dalla dubbia
conversione (Egitto), estremisti anti-occidentali (Iran). Il successo di Hamas sarebbe una sgradita e devastante conferma, perché
nel suo caso più ancora che in altri le condizioni per una «cooptazione nel processo politico» non sembrano esistere.
Che la democrazia vada costruita prima, e non
soltanto attraverso le urne? Franco Venturini Corriere della Sera
di martedì 24 gennaio 2006 |