Hamas, il maggior
gruppo estremista islamico palestinese, continua la sua marcia nell'arena
politica. Dopo aver boicottato le prime consultazioni, ha vinto con una
vigorosa campagna elettorale le seconde e ora si prepara a ricoprire un ruolo
di primo piano nel governo palestinese. Il suo coinvolgimento nel processo
democratico parrà a molti attoniti osservatori intriso
di profonda ironia. Dopo tutto, il gruppo schiera un
esercito privato, adotta la violenza come strumento politico, pianifica
attacchi terroristici, è votato alla distruzione di Israele e alla fondazione
di un governo islamico radicale. Tuttavia, a giudizio di numerosi osservatori
ottimisti, saranno proprio gli oneri e le responsabilità connessi alla
politica democratica a domare Hamas che, una volta
costretta nelle modalità proprie della normale prassi democratica, dovrà
rispondere a un variegato insieme di circoscrizioni elettorali
e garantire risultati concreti. Dovrà rinfoderare la spada e agire. Esistono
esempi di soggetti politici non democratici approdati alla rispettabilità
dopo aver preso parte al processo democratico. Il problema è che pochi di
questi esempi sono paragonabili ad Hamas. A differenza dell'Ira irlandese, Hamas non prevede una esplicita
separazione tra il braccio militare e quello politico. Tutte le sue
diramazioni rispondono alla medesima autorità organizzativa, che assume le
decisioni principali sulle operazioni terroristiche e sulle questioni
socio-politiche. Hamas riconosce sia una leadership «interna» ai Territori palestinesi che una leadership
«esterna» che vive all'estero, in particolare a Damasco. Alla morte di Arafat, che aveva tentato di
cooptare il movimento pur tenendolo a distanza, il gruppo ha ritenuto fosse
giunto il tempo di proporsi come partito e tentare di conquistare un potere
politico legittimo. Decisione indotta da una serie di fattori, tra i quali il
caos nel quale versava l'Anp; la debole posizione
del successore di Arafat
alla presidenza, Mahmud Abbas;
la possibilità di rivendicare la propria parte di merito nel ritiro di
Israele da Gaza e il ruolo ricoperto nella successiva gestione del
territorio; la crescente fama di garante di ordine e assistenza sociale. C' è
chi individua i primi segnali di una svolta moderata: la forte volontà di
prendere parte alle elezioni ed entrare nel Consiglio Legislativo
palestinese, un'istituzione nata dal processo di pace di Oslo;
l'aver accettato una tregua transitoria (tahdiya)
con Israele; la dichiarata disponibilità a considerare l'ipotesi di un
cessate il fuoco più duraturo (hudna) nel caso in
cui Israele decida di ritirarsi entro i confini del 1967. Esistono, tuttavia,
indizi incontestabili che spingono nella direzione opposta. Il leader Mahmud Al Zahar
ha spiegato che qualsiasi cessate il fuoco non implicherebbe il
riconoscimento di Israele ma sarebbe solo una nuova fase della lotta.
«Entreremo nel Consiglio Legislativo con le armi in pugno». Gli ottimisti
citano esempi di movimenti illiberali che si sono adeguati alle norme
liberali. La
stessa Condoleezza Rice
ha citato l'Irlanda e l'Angola come esempi di Paesi nei quali forze eversive
hanno preferito le urne ai proiettili. In Turchia, gli estremisti islamici
sono stati coinvolti nel processo politico, al punto che il leader del partito islamico radicale Giustizia e Sviluppo,
Recep Tayyp Erdogan, è primo ministro dal 2002. La Turchia, però, è
l'unico Paese della regione ad aver sostenuto il laicismo per oltre ottant'anni e le istituzioni democratiche per più di
cinquanta. Un altro modello è offerto dal Libano, dove un forte movimento
islamico radicale, l'Hezbollah, opera all'interno
di un sistema politico debole e frammentato, godendo dell'appoggio
di una potenza esterna (l'Iran). Il movimento ora mantiene la più potente
milizia del Paese ed è diventato un protagonista della politica libanese. L'ingresso
nel governo non ha impedito all'Hezbollah di
sferrare un pesante attacco a Israele nel 2005, né
la sua piattaforma idelogica o la condotta politica
hanno mostrato segni di cambiamento. Se, quando e a quali
condizioni deporrà le armi, resta da vedere. La principale lezione che
si ricava da questi esempi è che il successo della cooptazione
attraverso la partecipazione politica dipende da precise condizioni in un
dato contesto politico. Affinché
il processo funzioni occorre la compresenza di almeno tre fattori: un sistema
politico forte, sano e relativamente libero, che possa inglobare gli elementi
radicali; un equilibrio di potere che costringa gli estremisti a rispettare
regole moderate; tempo sufficiente. Solo un sistema politico sano sarà
in grado di fornire agli estremisti incentivi per il disarmo. Nel 1948, il
primo premier israeliano, David Ben Gurion, annientò i movimenti armati per evitare che
avvelenassero la nuova democrazia israeliana. Nel 1984, l'allora presidente
Chaim Herzog (mio padre),
rifiutò di incontrare Meir Kahane,
il capo del partito ultranazionalista Kach,
nonostante Kahane fosse stato eletto in Parlamento
- un atteggiamento che contribuì a fissare nel rifiuto del razzismo e nell' adesione alla democrazia i principi fondamentali
dello Stato ebraico. Oggi le elezioni nell' Anp possono essere relativamente libere ma le istituzioni
sono nel caos e il centro pragmatico politico, rappresentato dal Fatah, è allo sbando. Hamas sta
intraprendendo la carriera politica senza aver deposto le armi ed è
plausibilmente più forte di tutti gli altri apparati dello Stato. È troppo
tardi per escludere Hamas dalla politica
palestinese. Non lo è, tuttavia, per evitare di aggravare l'errore concedendo
al gruppo carta bianca
e piena legittimazione indipendentemente dalla sua condotta. I palestinesi,
con l' aiuto di Israele, degli Stati Uniti e del
resto della comunità internazionale, dovrebbero d'ora in avanti fare tutto il
possibile per creare le condizioni di una svolta liberale interna all'organizzazione,
nella speranza che gli ottimisti possano un giorno dimostrare di aver avuto
ragione. Con Hamas al vertice
della politica palestinese e delle istituzioni nazionali, la responsabilità
immediata ricade sugli attori internazionali, chiamati a creare incentivi
efficaci affinché il movimento deponga le armi. La comunità
internazionale dovrebbe stabilire chiaramente che la partecipazione al
processo democratico legittimerà Hamas,
solo nella misura in cui il gruppo rinuncerà alla violenza e riconoscerà il
diritto di Israele all'esistenza. La disponbilità
al dialogo politico e alla rimozione del movimento dall'elenco dei terroristi
internazionali dovrebbe essere vincolata agli effettivi progressi compiuti.
Idealmente, occorrerebbe che i rapporti israelo-palestinesi
migliorassero parallelamente alle condizioni di vita all' interno
dell'Anp, in modo da creare un circolo virtuoso
capace di far progredire tanto il processo di pace quanto le riforme
palestinesi. I negoziati sullo status finale ora sembrano più lontani che
mai. È probabile che lo spettro di un'Anp debole e
paralizzata, nelle mani di un movimento forte e violento, rafforzi l' inclinazione di Israele verso l'unilateralismo.
Nessun partito esterno può sostituirsi alla leadership palestinese nella
creazione di un sistema nazionale che sia
effettivamente in grado di delegittimare l'estremismo. Lo storico tentativo
di consentire ad Hamas di
entrare in politica è solo agli inizi ma sin d'ora le dinamiche di breve
periodo paiono sufficienti a compromettere le prospettive a lungo termine. L'occasione
di domare Hamas potrebbe essere già passata.
Michael Herzog
Foreign Affaire (traduzione di Maria Serena Natale)
Corriere della Sera
di domenica 29 gennaio 2006
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