CRAXI, UN DECISIONISTA AL SERVIZIO DEI DISSIDENTI

Una raccolta di saggi dedicata a Bettino Craxi, il socialismo europeo e il sistema internazionale (a cura di Andrea Spiri, Marsilio, pp. 224, euro 18) getta nuova luce su un aspetto rilevante del confronto-scontro tra socialisti e comunisti italiani avvenuto negli anni Settanta e Ottanta, quello della politica estera, in particolare per quanto riguarda l' atteggiamento tenuto dai due partiti nei confronti dei regimi comunisti e dei dissidenti dell'Est. Già il cecoslovacco Jirí Pelikán, che dopo l'invasione del suo Paese aveva trovato rifugio in Italia, ricordò qualche anno fa come fosse stato aiutato assai più dal Psi che dal Pci. Mentre il Pci forniva ai dissidenti un sostegno intermittente e imbarazzato, il Psi si impegnò con estrema decisione a favore non solo di Pelikán (cui tra l'altro consentì, candidandolo nelle sue liste, di entrare nel 1979 nel Parlamento europeo) ma in generale degli oppositori dei regimi comunisti. Un'iniziativa come la Biennale del dissenso del 1977, che ebbe grande risalto nonostante i tentativi sovietici di impedirne lo svolgimento, non sarebbe stata possibile senza il deciso appoggio di Craxi all’allora presidente della Biennale stessa, il socialista Carlo Ripa di Meana. Ma l'aspetto più interessante del volume forse non sta nel rievocare vicende che in gran parte sono già note, quanto nel ricostruire come Craxi - con un realismo che all'epoca ebbe pochi riscontri nel resto del socialismo europeo - reagì ai cambiamenti della situazione internazionale di fine anni Settanta. In politica estera il nuovo segretario del Psi (giunto al vertice del partito nel 1976) aveva inizialmente un orientamento «terzaforzista», come ricorda Gaetano Quagliariello in uno dei saggi del volume. Craxi, infatti, si dichiarava radicalmente contrario alla logica dei blocchi e tendeva a collocare le due superpotenze, Usa e Urss, su un piano di sostanziale parità. Questa visione, però, mutò radicalmente di fronte al dispiegamento dei missili SS20 sovietici e poi all'invasione dell'Afghanistan da parte dell'Urss, fatti che vennero da lui interpretati lucidamente come altrettante prove di una nuova aggressività sovietica, dovuta ai primi elementi di crisi negli equilibri del regime. Per valutare l'importanza di questa diagnosi, si tenga conto che in quegli anni non solo il Pci considerava l'Urss (nonostante i suoi «tratti illiberali») come un baluardo nella lotta contro l'imperialismo americano, ma nello stesso partito di Craxi non mancavano quanti continuavano a proporre una sostanziale equidistanza tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Il differente atteggiamento di socialisti e comunisti nei confronti dell'Est riposava appunto su una lettura completamente differente della politica estera dell' Urss e della natura dei regimi comunisti. Lo stesso famosissimo giudizio di Berlinguer del 1981, se riletto per intero (lo citano Spiri e Zaslavsky in un altro saggio del volume), appare di una prudenza davvero sorprendente. Dopo il colpo di Stato di Jaruzelski, infatti, il segretario comunista dichiarò che «la capacità propulsiva di rinnovamento delle società. o almeno di alcune delle società che si sono create nell'Est europeo, è venuta esaurendosi». Sarebbe stato possibile, per il Pci, avere più coraggio, assumere una posizione meno lontana da quella di Craxi così da rendere, almeno nel giudizio sulle società dell'Est, meno divaricate le posizioni dei due principali partiti della sinistra italiana? Il Pci che, con troppa timidezza, criticava i sovietici era anche un partito, come si sa, che aveva bisogno dell'aiuto finanziario di Mosca (il sistema di finanziamento illegale del Partito socialista messo in piedi da Craxi, ricordò Luciano Cafagna anni fa, rappresentava anche un modo per ovviare a questa sorta di concorrenza finanziaria sleale). Ma è difficile attribuire soprattutto a questo fatto la causa delle incertezze e dei tentennamenti del Pci verso il comunismo sovietico. Di quei soldi il partito avrebbe fatto a meno a partire dal 1981, senza che per ciò stesso si consumasse, dopo di allora, alcuna rottura definitiva con il regime di Mosca. A condizionare i vertici del Pci, si è più volte sostenuto, era anzitutto una base che restava in maggioranza filosovietica; un dato innegabile, questo, confermato com'è da molte ricerche. Senonché la capacità di assumere decisioni radicali e rischiose per la propria carriera politica, sfidando anche la propria base - ciò che in Italia spesso è stato definito negativamente (proprio in riferimento a Craxi) come «decisionismo» - è in realtà una delle caratteristiche essenziali della vera leadership politica. Ma di questa caratteristica la classe dirigente comunista sembrava avere quasi paura: per essa il togliattismo, invece che essere anche - come fu, nel bene e nel male - capacità di prendere decisioni difficili, compiendo se necessario svolte radicali, finì spesso col diventare una specie di doroteismo di sinistra. «La cosa che mi scotta di più - ha scritto Pietro Ingrao - in ciò che ho fatto dinanzi ai regimi dell'Est è di non aver fatto nulla per aiutare la dissidenza». Un giudizio sofferto, quasi il riconoscimento di una colpa, e che lascia intendere come, nei confronti del dissenso e della critica dei regimi comunisti, il suo partito d'un tempo avrebbe probabilmente potuto fare di più.

 

Giovanni Belardelli

 

Corriere della Sera di mercoledì 1 marzo 2006

 

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