Questo
lungo viaggio intrapreso per vedere e raccontare il Mississippi, coi suoi 3.778 chilometri il terzo fiume al mondo per
lunghezza dopo il Nilo e il Rio delle Amazzoni, è cominciato da Bergamo Alta:
la stessa città dalla quale più di 180 anni fa un gentiluomo, letterato e
fervente patriota bergamasco - Giacomo Costantino Beltrami - era partito, dopo una sosta in Inghilterra,
per il «Nuovo Mondo» alla ricerca delle sorgenti del favoloso corso d'acqua
americano, fino a quel momento inesplorate: che infatti
trovò e identificò nel lago Itasca, Minnesota. Era
la fine d'agosto del 1823. Da allora quella porzione di territorio all'estremità
settentrionale del Nordamerica diventerà per sempre
la Beltrami County
e l'Itasca verrà
ribattezzato «Lago Giulia», in ricordo della contessa Giulia de' Medici
Spada, il grande ma contestato amore di Giacomo Costantino, che ne soffrì per
tutta la vita.
Carbonaro e massone (ma lui ha sempre negato di appartenere
a qualsiasi Loggia), a 18 anni Beltrami si arruola
nella milizia della Repubblica Cisalpina. È una testa calda, insomma. Le
cronache del tempo lo raccontano «alto e prestante, istruito e poliglotta» e
a Firenze, nel salotto della contessa d'Albany
incontra intellettuali, poeti, artisti del calibro di Foscolo e Canova, Chateaubriand e Lamartine, Lord Russell e Lord Byron. Ma è senz'altro la
sua esperienza di instancabile viaggiatore ed
esploratore (in undici mesi percorse più di seimila miglia lungo le sponde
del Mississippi) ad avergli assicurata la fama: che purtroppo, lamentano i
dirigenti del Museo di Scienze Naturali «E. Caffi» di Bergamo, dove sono custoditi documenti e cimeli
sul concittadino Beltrami, è più diffusa all'estero
che in Italia. Il suo aspetto generava rispetto e fors'anche
timore fra i nativi delle tribù sioux e chippewa arroccati nelle loro riserve sul fiume: girava
armato di schioppi, spade, arco e frecce e portava sempre con sé un ombrello
rosso. Era considerato un essere superiore, un grande
guerriero, ma più spesso lo chiamavano soltanto l'«uomo dall'ombrello rosso».
I nativi lo rispettavano perché parlava la loro lingua. Fra le tante attività
aveva avuto anche il tempo e la voglia di scrivere un manuale inglese dal
titolo The Sioux vocabolary 1823. Un suo ritratto
domina la parete del museo: è in piedi sulla canoa, il volto fiero e
arrogante di un antico eroe. Ma non posso togliere
lo sguardo dai mocassini di pelle di daino con cui da St.
Louis è salito fino al lago Itasca
e ne è ridisceso, eccitato dalla sua scoperta.
Tuttavia, in questo suo tentativo di scoprire le fonti del Mississippi, il bergamasco è stato preceduto da altri esploratori che
inseguivano lo stesso obiettivo e che infine gli avrebbero tolto un po' di
gloria: lo spagnolo Hernando De Soto,
il francese Robert Cavalier
(signore De la Salle), l'inglese
David Thompson, gli americani Montgomery Pike, Lewis Cass
e Henry Schoolcraft.
Anche se a Beltrami viene
riconosciuto il merito d'aver scoperto le sorgenti più settentrionali del
fiume. Lo stesso Schoolcraft, seguendo nove anni
dopo l'itinerario dell'antropologo e naturalista di Bergamo che si
autodefiniva, con eccessiva umiltà, «un gitante senza pretese», confermò la
tesi dell'esploratore italiano che riconosceva nel lago di Itasca la sorgente del Mississippi. Ma persiste tuttora
un margine di incertezza: perché si tratta di una
regione dove l'acqua sgorga e scorre dovunque, un labirinto di laghi,
laghetti, fiumiciattoli, pozzi dove anche un esperto fatica a raccapezzarsi e
nasce il sospetto che il fiume possa avere origini diverse e non sia
alimentato da un'unica fonte. Beltrami scriveva i
suoi libri di viaggio e i suoi trattatiche venivano pubblicati all'estero per lo più in inglese e
francese e trascurava l'italiano. «Questo dipese da tante cose - scrive Luigi
Grassia nel suo vivace libro Un italiano fra Napoleone e i Sioux,
biografia del bergamasco -. Il Papa aveva messo i
suoi libri all'indice, rendendone problematica l'edizione nella lingua madre.
Ma il problema non stava solo lì. Fin dall'inizio Beltrami aveva deciso che l'italiano fosse
provinciale e inadatto ad opere che puntavano alla fama internazionale... E
per tutta la vita corrispose più con stranieri famosi - Jefferson,
La Fayette, Chateaubriand,
Constant - che con italiani dello stesso calibro».
E Grassia ricorda dello scherzo che gli fece Chateaubriand, quando nel suo libro Voyage
en Amérique, dopo aver riconosciuto in pieno i
meriti dell'esploratore, «gli copiò letteralmente 56 pagine senza più citarlo». Dodici milioni di persone vivono in
prossimità del Mississippi; ma anche le comunità che abitano all'interno,
lontano dall'acqua (altri quattro milioni), dipendono in gran parte dal fiume
per la loro sopravvivenza: molti sono discendenti degli schiavi che
faticavano come bestie nelle piantagioni di cotone e tabacco. Sono più di
quaranta gli affluenti che si gettano nell'Old 'man river, tra cui il Missouri, che è il più lungo di tutti (4.130 km) e a St. Louis si congiunge col
Mississippi scaricandogli dentro la portentosa energia delle sue onde, per
correre insieme fino al delta nel Golfo del Messico. Questa è la parte bassa
del fiume che passa attraverso gli Stati del Missouri, Kentucky, Tennessee,
Arkansas, Mississippi e Louisiana. Scivola anche in mezzo a città
incantatrici che si chiamano St.
Louis, Memphis, Natchez e
infine New Orleans. Faccio il percorso inverso e da New Orleans, devastata da Katrina
e ancora spettrale, risalgo verso St. Louis, che in passato ha pure subìto
le punizioni del Mississippi, anche se meno severe, come l'inondazione del ' 93 che, dopo aver seppellito il minuscolo borgo di Alexandria, s'avventò contro gli argini della città
minacciando di travolgere, con 314 mila metri cubi al secondo, la barriera di
contenimento lunga quasi 18 chilometri e alta 16 metri. Se si vuole capire la storia, il destino di St.
Louis - questo il consiglio di ogni
storico della città e del Paese - non si può mancare una visita, in Ohio Avenue, al Sugarloaf Mound, un tumulo di terriccio e d'erba che è tutto quanto
è rimasto entro i confini urbani degli insediamenti dei Native Americans nella regione. Perché qui gli
indiani hanno vissuto in armonia per dieci o anche ventimila anni prima che
negli ultimi tre secoli spagnoli, francesi, italiani e americani bianchi
occupassero la loro terra, sopprimendo una cultura millenaria. È stata
spazzata via una civiltà che lo scrittore George Lipsitz definisce «una delle più avanzate del mondo»,
quella degli indiani del Mississippi. Abitavano vicino a
St. Louis in una località che ora si chiama Cahokia
e nel tredicesimo secolo la loro comunità di quarantamila persone era più
popolosa di Londra. Ciò che rimane del loro passato sono
questi tumuli dove hanno seppellito i loro morti. Un tempo ce n'erano almeno venticinque e di grandi dimensioni. Ma sono via via scomparsi,
demoliti dai nuovi «padroni» che avevano bisogno di spazio per soddisfare le
proprie necessità. Vennero sostituiti dai cimiteri
rurali coi simboli delle nuove religioni, del tutto estranei alla cultura dei
nativi. Se si vuole sprofondare oltre, nel passato remoto della città e nelle
sue vicende più tragiche, un appuntamento d'obbligo è la Old Courthouse, l'antico tribunale nella
downtown, il centro storico, dove si consumò la storia di Dred
Scott: uno schiavo che nel 1846 aveva avviato
azione legale per diventare un uomo libero, essendo vissuto in condizioni di
semilibertà nell'Illinois e nel Wisconsin, Stati non schiavisti. Ma la
Corte Suprema degli Stati Uniti respinse brutalmente la richiesta. Era il
1857. Verdetto che accrebbe la tensione fra gli Stati
antischiavisti del Nord e quelli del Sud, schierati sul fronte opposto:
tensione che sarebbe sfociata nel 1861 nella guerra civile, terminata quattro
anni dopo. Dred Scott
morì nel '58 e riposa nel cimitero del Calvario. Lo
stesso dove è sepolto il Premio Nobel William Faulkner:
che però - mi informa diligentemente la mia guida -
avrebbe voluto essere tumulato altrove, irritato dal trattamento che St. Louis gli aveva riservato
nei giorni della giovinezza. Il primo battello a vapore sbarcò a St. Louis nel 1817, inaugurando
una nuova era di commercio e prosperità lungo il fiume e ben presto, come
ricorda Mark Twain, in Life on the Mississippi, sarebbero stati più di un
centinaio gli steamboats che attraccavano
regolarmente ai moli della città, divenuta frenetica, incontenibile. Un nuovo
impulso le sarebbe venuto alla fine dell'800 dallo
sviluppo della rete ferroviaria che fece concorrenza al traffico fluviale e
vide la costruzione di una mastodontica, farraginosa stazione, «la più grande
del mondo», su cui convergevano a migliaia i binari, in partenza da ogni
parte degli States, est ovest nord sud. Nuova
vitalità ed opulenza che vengono esaltate nel 1904
con la Fiera Mondiale
e nel 1914 con la «St. Louis Pageant & Masque» ambedue
celebrate con popolare entusiasmo nella cornice del Forest
Park, il vastissimo parco cittadino. Impossibile che tutto
ciò potesse avvenire senza provocare problemi sociali, esacerbando
soprattutto il conflitto tra i bianchi e la popolazione di colore che s'è
infittita nel tessuto urbano. «È un problema che certo non è scomparso
- dice Bill Smith,
cronista del St. Louis Post-Dispatch, il quotidiano locale - anche se c'è stato
un lieve miglioramento. L' affermazione che la St. Louis d' oggi
non è più quella degli anni Sessanta può essere condivisa: ma soltanto perché
le leggi che permettevano la discriminazione aperta sono state riscritte, in
base alle quali, ad esempio, la segregazione nelle scuole non è più ammessa. Però, sostanzialmente, la realtà non è cambiata. Ci sono
scuole dove il 90 per cento degli alunni sono neri.
I bianchi vendono le proprie case se nel quartiere dove abitano aumenta la
percentuale dei coloured. Siamo in una città dove
dei due night, vicinissimi l'uno all'altro, uno, l'Oz, è tutto bianco e l'altro, il Wiz,
è tutto nero. Al Bush Stadium,
tempio del baseball, dove gioca la popolarissima squadra dei Cardinals, solo il 3 per cento del pubblico è composto da gente di colore, anche se gran parte degli atleti in
campo sono neri. No, non vedo ancora la possibilità di una vera integrazione
fra le due comunità. Il razzismo è una bestia dura a morire». Se fai una
passeggiata lungo il Delma Boulevard corri il
rischio di calpestare i nomi e la memoria di cittadini illustri che hanno
fatto la storia e la gloria di St. Louis: già, perché nel marciapiede della cosiddetta walk of fame, la strada della fama, hanno incastrato
delle placche che li ricordano per l'eternità. Tutti degni di rispetto, ma se
proprio uno dovesse scegliere su chi non posare i piedi neanche per sbaglio,
le mie preferenze andrebbero al grande giornalista Joseph Pulitzer, fondatore del
famoso premio, e ai poeti e scrittori T. S. Eliot, Tennessee Williams e William Burroughs,
anche per evitare gli anatemi di Fernanda Pivano;
d'altra parte, come ignorare musicisti come Miles Davis e Scott Joplin? Infine, non ho potuto resistere alla tentazione
di sostare più a lungo davanti alla targa di Josephine Baker,
la soubrette ballerina, cantante che stregò la
Parigi degli anni Venti. «J'ai deux amours, mon Pays et Paris», scendendo dalle scale
fasciata di nulla. Che vita, la sua. Nasce (1906) in
una stamberga degli slums di Mill
Creek Valley nella
periferia di St. Louis,
impara musica e canto dai musicisti delle taverne, si esibisce per strada
come Edith Piaf accompagnandosi con un pettine infilato
in bocca e un banjo ricavato da una scatola di sigari. Ma nel '25 è già la
regina della Ville Lumière, alle Folies-Bergère.
Però la sua gente, quella delle baraccopoli nere, avrebbe continuato ad
amarla perché da ragazzina aveva sofferto la furia dei bianchi, quando, nel '17,
presero d'assalto il suo quartiere facendo un sacco
di morti. Scott Joplin -
anche lui sul marciapiede della walk of fame - ha
inventato il Ragtime imparando a vivere e a comporre
musica nei club miserabili di Chestnut Valley, un distretto a luci rosse della città,
guadagnandosi l'ammirazione di compositori classici europei come Dvorak, Milhaud e Satie. E come dimenticare William C. Andy, che dormendo sotto un ponte (l'Eads
Bridge), trovò l'ispirazione per «St. Louis Blues» che per oltre 70 anni è stata una delle
canzoni più popolari del mondo e gli permise col successo internazionale e
due milioni di dollari in tasca, di dare per sempre un calcio alla miseria?
Ma è a Memphis ultima tappa del nostro pellegrinaggio - dov'era vissuto tra
il 1905 e il 1918 - che si trova la casa-museo del «padre del blues» William Andy, cui la capitale del Tennessee ha pure dedicato un
parco, non lontano dalla famosa Beale Street, che
all'inizio del secolo scorso ha visto l'esplosione di tanti talenti e che è
rimasta, per i cultori di quel genere musicale che sembrava fluire
direttamente dalla bocca degli schiavi coi ritmi e i
suoni della loro terra d'origine, il tempio del blues. «Per quasi un secolo -
ha scritto il leader della Memphis Jug Band, Will Shade - Beale Street è stata il punto
focale non solo del Mississippi ma di tutta l'America nera, eclissando
persino Harlem per l'entusiasmo della gente, l'eccitamento,
la musica». Il successo di Memphis, suggeriscono altri, era anche favorito
dal fatto che fosse «la sola vera città sul fiume da St.
Louis a New Orleans ed era
diventata il fulcro della regione». Per i musicisti che sbarcavano dai
battelli coi loro strumenti era come andare a una
festa. Ma nessuno può ignorare che Memphis abbia altri motivi di richiamo
oltre Beale Street, che, detto per inciso, sembra
assolutamente esamine durante il giorno, mentre si sveglia chiassosamente la
sera e la notte non appena nelle boites e nei club
si dà fiato alle trombe: il locale ufficio del turismo non ha alcuna esitazione ad informarti che la casa più
frequentata da turisti e curiosi è Graceland, la
magione dove Elvis Presley
ha vissuto la sua clamorosa stagione da Re del Rock and Roll
e dove dal '77 riposa insieme ai suoi famigliari in un angolo del parco
chiamato Giardino della Meditazione. Luogo di culto, di emozioni
forti e, non di rado, anche di pianti. Ma la capitale del cotone, che è
cresciuta e ha prosperato sulla pelle degli schiavi almeno fino al termine
della guerra civile, ha adesso un altro Re, anche se solo di nome, da opporre
all' incontrastato monarca della musica: il fantasma
del dr. Martin Luther King, ormai residente fisso nel National Civil Rights Museum che la città ha
costruito ristrutturando proprio il motel dove il leader del movimento pacifista
in difesa dei neri («I've a dream») venne ucciso
sul balcone una mattina di aprile del 1968.
Ettore Mo
Corriere della Sera di domenica 26 marzo 2006
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