«C'è
una parte di Yizhar in ogni autore che è venuto
dopo di lui», sostiene Amos Oz.
Dobbiamo credergli, dopo aver letto La
rabbia del vento (traduzione di Dalia Padoa, Einaudi, pagine 84,
euro 8,50). Perché, se è vero, e lo è, che non esiste romanzo della
letteratura israeliana che non sia legato alla terra - una terra che è
insieme reale e astratta, deturpata dal sangue e feconda di una indistruttibile speranza - allora, per i dilemmi che
pone, il romanzo di S. Yizhar è certamente quello
che viene per primo. Del resto, quando il libro uscì in Israele, nel 1949, a causa del suo
argomento - lo sgombero, da parte dell'esercito, di un villaggio palestinese
e il trasferimento dei suoi abitanti al di là del
confine - suscitò polemiche enormi. Né è da ritenersi casuale, per chi
conosce l'alto senso della democrazia di quel Paese, il fatto che per lungo
tempo fosse inserito nei programmi scolastici di
lettura, prima di esserne escluso. Raccontava il dissidio interiore di uno
dei soldati addetti allo sgombero: e, va detto, i ragazzi ebrei lo leggevano
negli stessi anni in cui, nelle scuole palestinesi, venivano
consegnati agli studenti libri di testo con carte geografiche dalle quali
Israele era escluso. Se poi il libro fu tolto dai programmi scolastici - mentre centinaia di migliaia di arabi
prendevano la cittadinanza israeliana: va detto anche questo - quello è un
peccato del quale il tempo e la Storia avrebbero fatto giustizia in una sorta
di drammatico contrappasso. Chi avrebbe mai immaginato, infatti, che i figli
o i nipoti di quegli stessi soldati che sgomberavano il villaggio
palestinese, sarebbero stati costretti, mezzo secolo e
oltre più tardi, a usare, dopo la persuasione, la forza per sgomberare
dalla Striscia di Gaza villaggi ebrei da abitanti ebrei che in questo
sgombero (considerato salutare dalla maggioranza della popolazione
israeliana) vedevano un sopruso? Il romanzo di Yizhar,
bellissimo, ha un crescendo emotivo che mozza il fiato. Siamo nel 1949, un
anno dopo la guerra di difesa e la fondazione dello Stato di
Israele - non riconosciuto, peraltro, da nessuno dei suoi confinanti.
È una mattinata invernale: splendida, come può esserlo una mattinata
invernale in Israele. C'è stata la pioggia. Ora, la temperatura è mite, l'erba
brilla. Lo sguardo - sembra di stare nella Cognizione del dolore - si perde
lontano: verso limiti che si aprono e si chiudono, campi arati e
verdeggianti, frutteti fitti di ombre, colli
azzurrini. È l'antica terra biblica dei deserti sassosi, profumata di erbe selvatiche, cui ha posto mano l'amorevole cura
dell'uomo. Di fronte ai soldati si erge il villaggio palestinese. L'ordine è
il seguente: «Radunare gli abitanti a partire da tal
punto (vedi mappa allegata) fino al punto tal altro (vedi stessa mappa),
caricarli sui camion e trasferirli oltre le nostre linee, far esplodere le
case di pietra e bruciare le capanne d'argilla, arrestare i giovani e i
sospetti, ripulire il territorio da forze ostili». Il tutto - è specificato -
con buone maniere e civile moderatezza, segno dello spirito dei tempi, di
buona educazione e forse anche della grande anima
ebraica. L'ordine è legittimo, se vogliamo: quello, dopo la proclamazione
dello Stato e una guerra vinta, è territorio di Israele.
Perché, allora, dinnanzi al piccolo villaggio, muto
come un sepolcro, l'animo del soldato che racconta è invaso dallo sgomento e
dal dubbio? Che senso hanno espressioni come «buone maniere», «civile
moderatezza», se quello che viene chiesto ai soldati
- ancorché giustificato dalla logica di chi ha vinto e pensa di essere
padrone all'interno dei suoi confini - consiste nel costringere uomini e
donne, vecchi e bambini, ad abbandonare le case che portano i segni della
loro esistenza quotidiana, il luogo nel quale sono nati e hanno vissuto? Gli
ordini sono ordini, però: bisogna rispettarli. Così,
i giovani militari israeliani vanno avanti: qualche colpo d'
avvertimento, l'ingresso nel villaggio, le case che saltano in aria. E questa è una sequenza che è difficile appoggiare nel
tempo. Compaiono, dapprima, ombre di individui
lontani che, terrorizzati dagli spari, si gettano al suolo come morti, si
rialzano, fuggono. Quindi, i soldati entrano nel
villaggio abbandonato: e vedono, con i propri occhi, «frammenti di saggezza
femminile nel governo della casa... utensili tenuti da parte secondo la
necessità o il caso». Poi, incontrano due vecchie decrepite: abbandonate
nell'abbandono. Poi, una madre disperata con un marmocchio al seno. Poi un
uomo distrutto dalla paura, che sbuca da un muro implorando e vomita per la
paura, e ride, piange, pulisce il suo vomito per scusarsi. Poi
un gruppo di ciechi che avanzano tenendosi per mano, porgendo l'orecchio
ansioso all'incognita del proprio futuro. Poi dei vecchi dignitosi e
tristi; donne che nemmeno per un istante smettono il loro lamento... E,
intanto, le case saltano; la disperazione aumenta; provenendo da più punti
diversi, gli arabi vengono riuniti, e si forma un
drappello. E questo drappello marcia. E quelli che
marciano si ignorano, pensano solo al loro destino:
sembrano «un gregge spaventato, silenzioso e sospirante», ricordano altri
esuli della Bibbia, altri esuli ebrei di un tempo recente. Mentre la
madre-leonessa col bambino in collo ha l'odio negli occhi... E, di colpo, il
soldato che racconta esplode, ha l'impressione di vivere in un incubo che ha
le sue radici in un passato che ha dentro, in un presente che promette solo
dolore per il futuro, e dice a un suo compagno: «Ma è proprio necessario mandarli via? Che male possono fare? I giovani sono scappati... che bisogno c'è?».
Poi, l'operazione finisce; i soldati sgomberano; sul
villaggio deserto cala il silenzio. Yizhar
scrive che quando quel silenzio sarebbe stato ancora
più perfetto, «allora Dio sarebbe sceso nella valle e vi avrebbe vagato per
vedere se il grido giunto fino a lui era così grande». Chi conosce Israele e
la Palestina, chi ama quella terra santa e maledetta, sa qual è il suono di
questo silenzio sgomento. Ricordo quando, con Fiamma Nirenstein,
andavamo in giro per i kibbutz della Galilea o nei
Territori, per Mixer, a intervistare gli ebrei superstiti del Ghetto di
Varsavia, gli ebrei italiani che si erano trasferiti a vivere in Israele e
avrebbero partecipato ai dibattiti che facevamo sulla terra e l'Intifada. In un villaggetto a
sud di Hebron c' era L. Recanati.
Era «di destra»: non avrebbe mai abbandonato il suo
insediamento. La notte, facevano a turno la guardia con il mitra. Di giorno,
andava a Gerusalemme - faceva cappelli - scortato. Scortati, andavano i
bambini a scuola. Ci diceva: vedete tutti questi minareti che circondano il
villaggio? Quando sono venuto io, non ce n'era
nessuno. Ma lei - chiedevamo - non se ne andrà mai? Mai. Intorno,
brucavano le pecore, si sentivano i loro campanelli; i mandorli erano in
fiore. Nel cielo c'era un grande silenzio. Ruben Bassani era «di sinistra». Viveva in una specie di capannuccia in Samaria. Arrivai
che sembrava di stare in Scozia: sulle pietre cadeva una pioggia gelata. Lui
(non era figlio dello scrittore, ma aveva gli stessi occhi azzurri,
dolcissimi) stava in questa casa con la moglie: tenevano i panni ad asciugare
davanti alla stufa. Pensai: che ci fa in questo deserto? Che
ci fa qui? Al dibattito, disse che i suoi migliori
amici, persone buonissime, erano palestinesi. Ricordo il rumore della
pioggia, e il silenzio. Una volta, al kibbutz Almog,
in riva al Mar Morto, a due passi da Gerico, scese dal trattore, al tramonto,
una ragazza marocchina, sefardita, coi pantaloncini all'inguine, di straordinaria bellezza. Almog era abitato da giovani. Avevano dissalato la terra
metro per metro. Ora, cresceva di tutto. Tra i rami
degli oleandri cantavano gli uccelli. Era un paradiso. Chiesi ai ragazzi: ve ne andrete, un giorno? Risposero: purtroppo, sì. Pensai:
nessuno possiede niente. E anche lì il silenzio era
profondo, nella pace della sera.
Giorgio Montefoschi
Corriere della Sera di martedì 21 marzo 2006
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