LA SOTTILE DISPERAZIONE DEI NUOVISTI

Dietro i tanti fallimenti

 

Tempi grami per i nuovisti, per coloro cioè che devono vendersi come facitori del nuovo. Per quindici anni sono stati i dominatori della scena sociopolitica, vendessero nuova Europa o nuova tecnologia, nuova finanza o nuova legalità, nuovi programmi o nuova sofisticata devianza. Il «nuovo che avanza» è stato il motore o rumore di fondo della politica, anche se poi nessuno è andato a controllare se il nuovo tanto esaltato fosse paragonabile a un vino novello, destinato dopo sei mesi al nulla totale. Purtroppo per loro, i nuovisti, pur se delusi da «quel che non è stato», sono condannati a proporre sempre cose nuove, e cominciano a cadere in una sottile disperazione, indotta dal fatto che in Italia girano forse pochi soldi, ma certo girano ancor meno idee. Si vedano i punti più delicati dell'attuale dialettica politica. Sul piano della collocazione internazionale, oscilliamo fra modernismi neo con o teo con e l'abitudinaria ripetizione dell'antiamericanismo di alcuni, della fedeltà atlantica di altri, del valore della pace da parte di tutti, forse pensando che l'unica cosa da fare è l'antico abitudinario adattamento a quel che succede. Sul piano dell'assetto costituzionale, oscilliamo fra l'abitudinaria rituale difesa di quel che c'è e la nuovistica ma senza nerbo retorica del federalismo, del regionalismo, della devolution. Sul piano della rappresentanza politica, spariamo raffiche di mirabolanti innovazioni (partiti unici, federazioni e subfederazioni, listoni e superlistoni, ecc.) ma nei fatti siamo alla ricorrente vittoria delle egoistiche abitudini di partito e di corrente. Sul piano della formulazione dei programmi del governo prossimo venturo si industriano laboratori, case, fabbriche, cantieri, conferenze programmatiche, ma ad oggi circolano solo usurati elementi prefabbricati di architetture programmatiche già viste. Per non parlare di quanto avviene nell'enfatizzato «rilancio delle politiche per il Sud», con il lancio di idee assai improbabili ma eccitanti (golf, casinò, barche, ecc.) ma sul fondo vero ricettacolo del vecchio delle peggiori abitudini di amministratori locali senza idee; o di quanto avviene in Rai, dove si discute di epocali innovazioni (il digitale terrestre o la privatizzazione) ma stravincono le furbastre abitudini del duopolio, dei partiti, dei cosiddetti «uomini Rai». In ogni campo camminiamo fra le macerie di pensieri divenuti statici ed abitudinari. Si capisce quindi come chi è condannato a vendersi come innovatore sia in crisi: il fallimento è avvenuto per vanità dei propositi o per inefficienza delle azioni? Quale che sia la risposta che diamo a questa domanda, anche per il nuovismo vale la regola coniata per la pubblica amministrazione: succede a se stessa perché non sa né crescere né morire. In virtù di questo parallelismo il nuovismo si accoppia con l'abitudine, figliando un mondo del pressappoco, che rende spesso inutile e flaccido il volontarismo politico; e più forziamo il nuovismo più aumentiamo la crescita dell'abitudine. Cerchiamo allora di cambiare metodo, se avviamo e vogliamo il cambiamento. Non perdiamo quindi i prossimi mesi a coltivare il nuovo che avanza, riprendiamo le lunghe derive su cui si sono costruite la nostra collocazione internazionale, i nostri assetti costituzionali, le nostre forze politiche, i nostri assi di sviluppo e di programmazione. Anche se rischio l'accusa di irredimibile continuista, mi sembra giusto ricordare che lo sviluppo italiano recente (nel peso della piccolissima impresa, del lavoro individuale, dei distretti locali, delle città intermedie) si è vitalmente radicato nella nostra storia sociale. Per risuscitare i significati, della vita e della speranza comuni il fattore decisivo è l'alchimia della memoria.

Giuseppe De Rita

 

Corriere della Sera di martedì 10 maggio 2005

 

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