MODELLO DANESE IN CRISI,

COPENAGHEN ORA VUOLE CAMBIARLO

 

Bersaglio mobile. A sinistra ma non solo, la politica italiana ha appena iniziato a studiare il «modello danese» che quello cambia. O almeno comincia a interrogarsi concretamente sulla necessità di farlo, per giocare d'anticipo sul rischio di un declino che si profilerà tra dieci o vent'anni e si presenterà tra quaranta.
Naturalmente niente strappi, in un Paese scandinavo che fa delle decisioni per consenso, mai traumatiche, un punto di forza. Ma il premier Anders Fogh Rasmussen, il primo di centrodestra da oltre 70 anni, ha visibilmente iniziato a spostare il timone di uno dei sistemi di welfare più competitivi dell'occidente. Chi lo conosce non ne è sorpreso, e non solo perché per lui le scelte dolorose si compiono meglio quando all'apparenza non ce n'è bisogno. In realtà però già dodici anni fa il leader di Copenhagen scrisse “Dallo Stato sociale allo Stato minimo”, un saggio delle cui pagine nell'ultima campagna elettorale il suo avversario socialista allora premier, Poul Nyrup Rasmussen (nessuna parentela), fece in pubblico aeroplanini di carta.
Volano ancora. Dalle prossime settimane l'attuale Rasmussen al potere guiderà una serie di incontri con l'opposizione, imprese e sindacati per «stilare un piano». Il suo obiettivo del resto è familiare a molte economie per le quali la crescita danese al 5% è un sogno: ridurre la pressione fiscale su imprese e famiglie (oggi è la seconda più alta al mondo, al 49,6% del reddito nazionale), accorciare ma rendere più produttivi gli studi per i giovani, tenere i danesi al lavoro fino a 68 anni, ridurre i sussidi per chi non ha un posto. Su quella base, Fogh Rasmussen intende compiere forse la sola scelta davvero imitabile persino dall'Italia: creare una piattaforma di riforme sulla quale il Paese discute, per poi scegliere alle elezioni politiche del 2009. Come se fin dal 2002 in Italia ci si confrontasse sui dettagli delle cose da fare nella prossima legislatura, e ora non restasse che scegliere su un chiaro programma per l' economia da prendere o lasciare.
Neanche per i danesi sarà facile. La flexicurity, vera miscela di flessibilità sul lavoro accompagnata da tutele del welfare (fino a 52 settimane di congedo pagato per ogni genitore su ogni figlio), ha un impatto potente e contraddittorio. L'occupazione è la più alta al mondo, ma l'età media crescente farà sì che 2040 ci saranno 350 mila lavoratori in meno (e già ora le imprese lamentano difficoltà a trovare personale). Il bilancio è in un attivo invidiato da tutti, il debito fra i più bassi dell'Ue, eppure senza interventi si arriverebbe a un deficit poco sotto quello italiano... fra 35 anni. In realtà però nel paradiso scandinavo della competitività, più dei sacrifici, fa paura la rivoluzione psicologica che questi comportano. Nyrup Rasmussen, l'ex premier socialista padre della flexicurity, accusa il suo omonimo di voler smantellare il modello di protezioni «dalla culla alla tomba» a favore dei più ricchi. Il suo rivale liberale ribatte che il 43% dei cittadini subisce l'aliquota più alta sui redditi, del 63%. Per entrambi, l'Italia è lontana più che mai.

 

Federico Fubini

 

Corriere della sera di venerdì 16 dicembre 2005

 

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