DA GRANDE MEDICO A
PAZIENTE INDIFESO
Ero
abituato a spostarmi in aereo da un continente all'altro. Di colpo non potevo più reggermi sulle mie stesse gambe, avevo perso l'uso
di metà del corpo e della parola. D'un tratto si era
consumata in me una metamorfosi quasi kafkiana. Non ero diventato un insetto,
ma qualcosa di peggio: un uomo incapace di tutto, quasi fossi
precipitato all' indietro, a prima della mia stessa infanzia.
Gianni Bonadonna, milanese, oncologo di fama
internazionale, quando è all'apice della carriera, a soli sessant'anni,
viene colpito da un ictus cerebrale devastante: si
ritrova afasico, paralizzato, epilettico.
Inizia allora, siamo nel 1995, una lunga battaglia contro una disabilità mortificante - è incapace di leggere e di
scrivere - che va avanti con caparbietà per dieci anni, fino al riemergere di
una qualche normalità. O, meglio, fino ad approdare a
un patto con la realtà: accettare di camminare, a fatica, con un bastone,
sopportare un dolore ribelle perfino alla morfina, accontentarsi di leggere
solo i titoli dei giornali e, nell'impossibilità di scrivere, affidare la voce
al nastro di un registratore.
Percorso doloroso e, a tratti, disperato che Bonadonna racconta in un libro scritto insieme al
giornalista del «Corriere della Sera» Giangiacomo
Schiavi Coraggio, ricominciamo (Baldini Castoldi Dalai Editore).
Ma, nel farsi biografo della sua malattia, l'oncologo
non dimentica di essere un uomo in camice bianco: «Mi sono ritrovato a
riflettere su una frase di George Bernard
Shaw: "La tragedia della malattia consiste nel
fatto che ti consegna indifeso nelle mani di una professione nei confronti
della quale ogni persona di giudizio e ben informata nutre una profonda
sfiducia". Da malato ho cominciato una verifica sul campo».
Verifica che spinge Bonadonna a riflettere sul
fascino quasi feticistico esercitato dalle tecnologie
diagnostiche e dalla potenza stessa dei farmaci che ha
fatto perdere di vista il malato come essere umano. È ormai scomparsa - scrive
- l'empatia, l'emozione quasi magica del medico e la sua capacità di dimostrare
una genuina partecipazione alle reazioni emotive dei pazienti. Ma se un'umanità va ritrovata, questa non deve mai andare a
discapito della scienza. Il "nuovo" medico deve rivitalizzare
il concetto di prognosi, tornare a essere un acuto
ragionatore e un decisionista tempestivo.
Ma Bonadonna si racconta
anche com'è adesso, svela paure, umiliazioni e rinunce per ricordare a tutte le
persone colpite, come lui, da un handicap grave che orgoglio e volontà non
devono mai sopirsi: «Ogni mattina, ogni notte mi sento
come il rabdomante in cerca di qualcosa che ho lasciato altrove. Non è facile
cercare le scarpe inglesi con i lacci e volerle indossare sull'abito di
velluto. Una tuta da ginnastica semplificherebbe le cose. Ma dobbiamo fare lo
sforzo di pensare che possiamo ancora giocare la partita, anche se il destino
ci ha azzoppato. C'è ancora qualcosa che possiamo fare
per aiutare gli altri ed è questo il modo migliore per sentirsi vivi».
E Gianni Bonadonna va all'Istituto
di Via Venezian, pur appoggiato al bastone, e si
mette il camice bianco; continua, a suo modo, a fare il medico. «Nella sfida ai
tumori abbiamo raggiunto qualche traguardo importante, eppure molti pazienti
muoiono ancora - confessa - . Forse anch'io non ho
fatto abbastanza».
Franca Porciani
Corriere
della salute di domenica 18 dicembre 2005