Wole Soyinka: Stanco di Africa
Se sei un nobel polacco parli per il tuo paese, se sei il primo africano a ricevere la laurea di Stoccolma non puoi che diventare la voce di un continente intero. Wole Soyinhka ha vinto il premio Nobel per la letteratura vent’anni fa, e da allora fa col megafono dell’Accademia reale quello che ha sempre fatto in università e teatri di mezzo mondo: pensare, parlare, scrivere per l’Africa.
Lo scrittore nigeriano è cresciuto a Abeokuta tra
missionari evangelici e divinità yoruba, parla inglese con l’eleganza di Oxford
e porta i suoi settant’anni con la schiena diritta e la forza intatta di un
vecchio saggio africano. Vive in Nigeria, insegna in America, viaggia in
Europa, parla dappertutto ma è sempre più stanco di parlare.
Fa finta di essere stanco, ma in realtà non ne può
più di spiegare all’uomo bianco e ai giornalisti di passaggio quanta Africa si
nasconda dietro le alzate di spalle e i rimorsi di coscienza: “non mi piace
l’Africa in prima pagina, non mi è mai piaciuto il modo che ha l’Occidente di
guardare alla mia gente. Per voi siamo la terra degli estremi, una riserva
di caccia del sensazionalismo: guerra, siccità, corruzione, Randa, Darfur, Idi
Amin. E’ sempre lo stesso sguardo incapace di vedere l’Africa come un
continente qualsiasi, con i suoi alti, i suoi bassi, la sua vita che a
differenza di quanto pensate voi non sta sempre attaccata al fondo, ma ha una
sua continua evoluzione”.
Siamo ancora ai convenevoli e potrebbe già finire:
Soyinka è portavoce di una causa dura, fino a ieri persa tra le varie ed
eventuali, da qualche mese tenacemente sulla bocca di tutti. Lo incontriamo a
Milano e ci rimanda in Nigeria, si fa vivo da Los Angeles ma è per dire che non
dirà più nulla, lo fermiamo in Liguria ma il portavoce ha già parlato troppo:
un continente sulle spalle sfibra le corde vocali, incrina le tempre più forti,
ti porta ad alzare le mani e gridare: “No, ora basta, sulla mia gente ho già
detto tutto.”
Lo lasciamo alla sua birra fresca prima
dell’ennesimo convegno, e pensiamo che è un peccato: sarebbe stato bello sapere
cosa ne pensa la voce più autorevole dei neri del rock più stucchevole dei
bianchi; avremmo voluto capire che idea si è fatto il Grande Africano degli
otto grandi che in Scozia hanno promesso di raddoppiare gli aiuti allo
sviluppo, ci saremmo accontentati di un parere su quella montagna di debiti
sciolta al calore dell’improvvisa generosità del mondo ricco: “Debito?” forse
ci siamo, il nobel molla la birra, il portavoce non poteva non reagire. “Di che
debito stiamo parlando? L’Occidente ha un debito storico con l’Africa per aver
interrotto con lo schiavismo e il colonialismo il naturale sviluppo della
nostra società. Poi sono venuti i debiti contratti dalle leadership africane
per arricchire se stesse. E ora questo colpo di spugna che non analizza i casi
singoli, non seleziona i governi democratici dai regimi dittatoriali. Avrei
preferito che si vincolasse qualsiasi forma di condono alla promozione dei
pilastri della democrazia: partecipazione diffusa, responsabilità politica,
diritti sociali”. Democrazia contro la miseria, democrazia contro la paura,
democrazia contro l’integralismo.
Il portavoce ormai è un fascinoso, sinuoso fiume in
piena: per l’Africa, contro l’Africa, per i popoli, gli dei, le parole del
continente nero, contro la scorciatoia della brutalità al potere. Wole Soyinka
non ama chi esporta valori in punta di cannone, ma nei suoi discorsi la
democrazia ritorna come un mantra capace di liberare l’Africa dal tunnel della
povertà e tutti noi dall’incubo di questo infinito, indecente scontro di
civiltà: “Nel mio paese città come Jos e Kaduna fino a qualche anno fa erano sinonimo di
ecumenismo, e oggi sono talmente lacerate da avere un ponte per i musulmani e
uno per i cristiani. E’ un’evoluzione molto triste: i politici sfruttano la
fede per il loro tornaconto personale e aizzano la gente con discorsi pieni di
odio. Ma sono solo gruppi, cui in democrazia vanno contrapposti altri gruppi:
io per esempio faccio parte del Citizen Forum che pratica la discussione
politica nelle piazze, nei mercati, ovunque ci sia gente che abbia voglia di parlare
e di ascoltare. Siamo in tanti e di tante etnie diverse. Siamo poveri e ricchi,
intellettuali, avvocati, operai. E ovviamente cristiani e musulmani”.
Lei è stato in carcere, ha combattuto la dittatura militare, ha lottato per
il ritorno della democrazia in Nigeria. I leader africani hanno qualche
responsabilità per la miseria del continente?
“Certo, e non occorre andare indietro nel tempo. Guardi sta succedendo in Zimbabwe: Robert Mugabe è stato un leader della lotta anticoloniale, ma dopo tanti anni al potere doveva scegliere se collaborare con la propria gente come un vero uomo di stato o alienarsela come un colonialista. Ha deciso per la seconda strada, si è trasformato in un dittatore e ha requisito le terre dei bianchi giocando sulla carta razziale in un modo volgare e violento: la riforma agraria è legittima, ma andava fatta con metodo, non con i modi spicci di un regime all’ultima spiaggia”.
E’ quello che si pensa anche in Europa. Ma allora cosa c’è che non va nella nostra immagine dell’Africa?
Voi europei siete convinti di non avere bisogno di
noi, che non valga la pena conoscerci. Pensate che se il mio continente
sparisse domattina per l’Europa non cambierebbe assolutamente nulla. Ma così
dimenticate una lunga scia di rapporti tra i nostri due mondi: da una parte la
prosperità d’Europa ha spesso coinciso con il saccheggio dell’Africa,
dall’altra proprio oggi l’Africa è in Europa, vive nelle metropoli europee con
i suoi uomini, le sue donne, la sua cultura. Ci vorrebbe un po’ di curiosità,
un po’ di analisi politica e culturale: non potete continuare a guardarci
solamente attraverso le lenti della beneficenza!”.
Scusi se insisto, ma il raddoppio degli aiuti e la cancellazione del debito non sono un’occasione da cogliere?
“sono dei gesti, dei bei gesti, ma bisogna vedere
come si tradurranno sul campo. Non dico che non dobbiamo accettarli, dico che
l’esperienza mi porta a diffidare: in passato le nostre classi dirigenti hanno
preferito fare gli interessi dei propri protetti e delle aziende occidentali
piuttosto che il bene degli africani. Bisognerà vedere se ci sarà una gestione
collettiva di questi soldi: se per esempio serviranno a rimettere in sesto il
sistema sanitario o la rete di scuole che io ho avuto a disposizione negli anni
della mia infanzia”.
Sui suoi primi anni di vita lei ha scritto Akè.
Gli anni dell’infanzia in cui racconta di aver iniziato a leggere
saccheggiando la collezione di Dickens di suo padre. Sono ancora possibili
queste contaminazioni nella Nigeria di oggi?
“Oh sì, la nostra società si sta aprendo a tante
influenze esterne. Non solo a quelle europee, come ai miei tempi, ma alla
diaspora africana, alla cultura dell’America nera, a quella caraibica. O al
serbatoio del Sud Africa, che fino a poco tempo fa era conosciuto solo per l’apartheid
e oggi è uno dei primi poli culturali del continente”.
Contaminazioni, Sud Africa… che begli spunti, quanti
discorsi ancora da fare. Ma il tempo è scaduto, il portavoce torna a sentire il
peso di un continente e tante parole sulle spalle: “Sono stufo di sentirmi
parlare”. Noi no, per il momento gli diamo tregua ma presto torneremo a
domandare.
Raffaele Oriani
Io donna – supplemento del Corriere della Sera di sabato 23 luglio
2005