Il Made in Italy
della tolleranza
Nell'intervista
al Corriere di Emma Bonino mi ha molto colpito la
frase di una sua amica che vive a Parigi: «Non sono più
marocchina, non sono diventata francese, la mia identità è solo quella di donna
musulmana». Siamo al trionfo dell'indistinto, cioè
di una caratteristica sfuggente di tutto il mondo contemporaneo dove le
identità storiche, nazionali o ideologiche che siano, si dissolvono e al loro
posto si insedia un insieme di comportamenti (di consumo, di comunicazione di
massa, di mobilitazione emotiva) strutturalmente troppo labili e generici per
garantire nuove e significanti identità. Tutto quindi precipita in una vita
indistinta, grande terreno di germinazione di
frustrazioni e di rabbie: vi possono fiorire tante aggressive disperazioni,
magari di giovani kamikaze con cittadinanza britannica ai quali la Mercedes
rossa regalata dal padre non dice nulla in termini di significato della vita (e
della morte); ma più in generale vi può fiorire una «società vuota», grande
buco nero di una modernità voluta ma non gestita. Forse sono queste
caratteristiche che rendono molte nazioni occidentali
incapaci di fronteggiare un terrorismo che sembra figlio del loro vuoto
interno, oltre che dell'aggressività islamica esterna: penso alle nazioni (il
Regno Unito) che orgogliosamente affermano la forza della propria maniera di
vivere, come a quelle (Francia e Olanda) che chiudendo le frontiere danno un
segnale di preoccupata e quasi razzistica difesa. E anche noi italiani - se ci
vediamo in termini di generale opinione pubblica - oscilliamo fra una voglia di
andare avanti comunque (con una rimozione fatalistica
che qualcuno ritiene da società sfibrata), e una voglia di sicurezza che spinge
a più controlli, più vigilanza, più durezza guerriera con gli extracomunitari.
Tutto però resta nel generico, magari in un provincialistico voler imitare un po' Blair ed un po' Sarkozy. Così facendo, rendiamo un torto
a noi stessi, perché agli immigrati l'Italia ha certo offerto
indistinte prospettive, ma ha anche garantito, nel silenzio, alcuni
fondamentali processi di integrazione: vivere in comuni ed in città di piccola
dimensione, con logiche di socializzazione diverse da quelle delle grandi città;
essere partecipi della dinamica della vitalità economica dei vari territori,
fino a diventarne protagonisti (si pensi a Prato ed ai diversi distretti
marchigiani); poter esprimere una carica individuale di crescita economica e
sociale facendo piccola imprenditorialità. Certo le
grandi periferie urbane restano indistinti focolai di indistinte vocazioni a
viver male; ma in Italia non sono così decisive come in altri Paesi europei.
Così per molti stranieri vivere in Italia ha corrisposto all'entrata negli assi
portanti del nostro modello di sviluppo (piccola
impresa, localismo economico, vita di borgo). E se anche le istituzioni
facessero una seria quotidiana opera di integrazione
(nella scuola come nelle votazioni amministrative) potremmo dire che l' Italia
è una nazione che non getta nell'indistinto e nelle conseguenti frustrazioni
coloro che vengono qui a lavorare. Sopravvalutazione di noi stessi, delle componenti portanti del nostro sviluppo? Forse, ma almeno su
questa linea di ragionamento si può continuare a costruire una politica, fuori dalle generiche affermazioni di multiculturalismo, di
europeismo, di civiltà occidentale, di scontro di valori.
Giuseppe De Rita
Corriere
della Sera di venerdì 15 luglio 2005