L’errore strategico
dell’Italia a tempo determinato
Il lavoro, nel
dibattito economico più recente, è diventato l’area tecnicolegislativa
privilegiata su cui numerosi giuristi e tecnici si
sono esercitati in relazione all’applicazione di diversi princìpi teorici,
strumenti normativi e soluzioni contrattuali.
Il lavoro che
nelle dottrine economiche classiche è stato sempre considerato un fattore di
produzione, al pari di capitale, tecnologia e terra,
probabilmente è stato caricato nel nostro Paese di eccessive responsabilità,
oneri e aspettative.
Per troppo tempo
si è pensato che le disfunzioni dell’economia, l’impossibilità di procedere ad
una piena modernizzazione del nostro apparato produttivo, il ritardo del nostro
Paese rispetto a prospettive di terziarizzazione, discendessero direttamente da
un vetusto e improduttivo modo di trattare i rapporti sociali di produzione nei
diversi settori di attività economica e nelle imprese.
Gli slogan di
questo modo di pensare sono noti: “il modello di
relazioni industriali italiano è vecchio e produce soltanto sacche di privilegi
e di asistenzialismo”, “gli imprenditori non possono investire in Italia a
causa di forme di tutela contrattuale eccessivamente garantiste nei confronti
dei lavoratori”, “la sicurezza del posto di lavoro produce soltanto
burocratizzazione delle procedure e scarsa produttività”, e potremmo continuare
ancora…
Condividiamo
l’idea che il modello normativo e regolamentare nazionale dovesse essere negli
anni Novanta, in alcune sue parti, sburocratizzato, reso più moderno e snello e
cercare di favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, per
agevolare alcuni meccanismi di flessibilità in direzione di una
maggiore libertà di azione dal punto di vista non solo dell’impresa ma anche
della libertà di scelta del lavoratore.
In
questo processo però è sato compiuto un errore strategico fondamentale,
decisivo agli occhi di chi vuole trattare in chiave veramente moderna una
questione delicata e complessa ccome quella lavoristica. L’avere
attribuito una visione salvifica, palingenetica quasi, a meccanismi di
sburocratizzazione e di flessibilizzazione, sia contrattuale che oraria, del
mercato del lavoro ha portato a non pochi e gravi danni al sistema.
Negli ultimi anni,
la nostra classe dirigente politica e imprenditoriale ha puntato solo ed
esclusivamente sulla flessibilità e sulla riduzione del costo del lavoro come
fattori chiave per garantire una maggiore competitività all’impresa italiana,
disinvestendo nella ricerca e nell’innovazione tecnologica, ovvero in quelli
che, nei sistemi economici avanzati, dovrebbero rappresentare il vero motore
dello sviluppo e della crescita.
La flessibilità
purtroppo in Italia è stata interpretata soltanto come possibilità per l’imprenditore
di modificare in qualsiasi momento le condizioni del rapporto
di lavoro (e quindi anche le modalità di cessazione del rapporto di lavoro) con
il prorpio dipendente e non come strumento in grado di rendere flessibile
l’organizzazione stessa del lavoro.
Si è trattato di un approccio fallimentare e i risultati, dopo
l’edificazione di un modello normativo tutto sommato coerente nei suoi principi
ispiratori e nei suoi istituti giuridici, sono sotto gli occhi di tutti, viste
le performance negative del nostro sistema economico negli ultimi quattro anni.
Fallimentare
perché ha consentito ad una ampia quota di
imprenditori di abdicare al proprio ruolo di responsabilità di conduzione e di
utilizzare gran parte dei nuovi strumenti contrattuali flessibili per tamponare
le negative performance produttive dovute a fattori esogeni alla vita
dell’impresa (il non potere più disporre del vantaggio di una moneta debole per
le esportazioni, la concorrenza dei paesi come la Cina, l’India e il Brasile,
il ritardo tecnologico e gestionale della propria organizzazione).
Attraverso
l’eccesso di flessibilità, diversi imprenditori, soprattutto quelli
appartenenti ai settori tradizionali della manifattura italiana, hanno
scaricato sulle risorse umane aziendali i costi di una
competitività sfrenata sul piano inetrnazionale.
Anziché incentivare, migliorare la formazione e la quaalificazione
delle proprie maestranze e dei propri quadri, gli unici in grado di potenziare
la qualità di processo e di prodotto, si è preferita la strada più breve.
Individui e gruppi
sociali in declino scontano pesantemente l’ambivalenza
del termine flessibilità: “(…) essa può essere l’altra faccia della rigidità,
ma è anche il contrario della stabilità e della sicurezza; e si può discutere a
lungo fino a che punto queste ultime siano precondizioni della società civile”
sostiene Ralf Dahrendorf.
Per Pierre
Bourdieu, la flessibilità è una strategia di precarizzazione, “il prodotto non di una fatalità economica, identificata con la famosa
mondializzazione, bendì di una volontà politica. (…) Tutto l’universo della
produzione, materiale e cultura, pubblica e privata, viene così trascinato in
un più vasto processo di precarizzazione attraverso, ad esempio, la
de-territorializzazione dell’impresa (…). Facilitando o
organizzando la mobilità del capitale e la delocalizzazione verso i paesi con i
salari più bassi, dove il costo del lavoro è inferiore, è stata favorita
l’estensione della concorrenza tra i lavoratori su scala mondiale”.
“La precarietà
oggi è dappertutto – afferma Bordieu – nel settore privato e in quello
pubblico, che ha moltiplicato i posti di lavoro a tempo definito e interinali,
nell’industria ma anche nelle istituzioni di produzione e diffusione culturale,
nel mondo della formazione, nel giornalismo, nei mass media, dove essa produce
effetti quasi sempre identici, che diventano particolarmente
visibili nel caso estremo, quando colpisce alcuni con il dramma della
disoccupazione: la destrutturazione dell’esistenza, privata tra l’altro delle
sue strutture temporali, e il conseguente degrado di tutto il rapporto con il
mondo, con il tempo e con lo spazio.”
Il modello della
flessibilità spinta ha consentito ad una quota consistente di
imprenditori di rinviare all’infinito problemi ineludibili, come il
passaggio generazionale in azienda, l’applicazione di modelli organizzativi e
gestionali efficienti, l’assunzione di manager verramente capaci e profondi
conoscitori delle nuove tecnologie dell’
Oggi, negli
ambienti più avveduti (ma non in tutti, basta vedere come periodicamente si
riaffaccino temi come la discussione dell’articolo 18) ci si è resi conto che
la modernizzazione di un apparato produttivo non può
passare soltanto attraverso la proliferazione di meccanismi regolativi dei
rapporti di lavoro, ma attraverso una impostazione culturale che tenga conto
della complessità della dimensione produttiva in un contesto multifattoriale e
globalizzato.
Ed in questo quadro ci sono le prime
vittime. Un’intera generazione di giovani che si trova a scontare la
sperimentazione di una flessibilità spinta senza
ammortizzatori sociali e senza che il modello nazionale di welfare abbia
predisposto strumenti adeguati a coprire i periodi di inattività professionale.
Il 52% della nuova
occupazione, in gran parte giovanile, creata tra il 2002 e il 2003, è atipica e
per la prima volta nel nostro Paese i nuovi lavoratori portano i caratteri di una precarietà e di una incertezza che di fatto non
trovano sostegno nel sistema previdenziale (troppo impegnato a rispettare
parametri di efficienza e di contenimento dei costi), né in quello creditizio
(che pretende improbabili garanzie reali per la concessione di mutui per la
casa o per l’avviamento di un’attività imprenditoriale) né in quello
professionale (dove si assiste ad una specie di guerra tra una vecchia
generazione non sufficientemente qualificata e garantita dai vecchi meccanismi
di tutela ed una nuova generazione che alla laurea ha aggiunto spesso e
volentieri momenti superiori di specializzazione post-laurea o master).
Dall’introduzione della legge Biagi, ben 61
collaboratori coordinati econtinuativi su 100, anziché accedere
ad una maggiore stabilità contrattuale, sono diventati “lavoratori a progetto”:
beffarda locuzione, questa, in evidente contrasto con l’impossibilità di
progettare la propria esistenza che caratterizza il lavoratore atipico, a cui è
negata la possibilità di pianificare e predeterminare con un certo margine di
provedibilità la propria storia professionale.
Il lavoratore a
tempo determinato è quasi una metafora del nostro Paese, schiacciato sul
presente, incapace di proiettarsi nel futuro e di prolungare lo sguardo oltre l’arrangiarsi giornaliero. Il Paese dei lavoratori a progetto è, paradossalmente, un Paese senza un progetto,
incagliato nel quotidiano e incapace di lanciare il cuore oltre l’ostacolo.
Gian Maria Fara
Presidente Eurispes