AVVENTURIERI ALL'ASSALTO
A
differenza di altri, noi crediamo a ciò che ha detto Silvio Berlusconi quando
ha assicurato di non avere alcuna parte nella scalata alla Rcs. Ci crediamo,
vogliamo crederci, perché ci sembra ovvio che in un Paese serio si creda alla parola del presidente del Consiglio, almeno fino
a prova contraria: e tale non ci pare neppure il fatto, per altro inoppugnabile,
che troppe volte, in altre occasioni, le sue parole hanno reso un pessimo
servizio alla verità. Ma il punto non è tanto quello dell'effettiva
attendibilità del presidente del Consiglio nel caso
specifico: è il dubbio massiccio e permanente che su faccende importanti come
queste grava da anni e anni su ogni sua parola e azione, rendendone la figura
costantemente ambigua e non credibile agli occhi di una parte vastissima dell'opinione
pubblica interna e della maggioranza degli osservatori internazionali. Un
sospetto, una diffidenza costanti aleggiano intorno al
presidente del Consiglio italiano ogni qualvolta si tratti di soldi, di
aziende, di affari e di tutto ciò che abbia a che fare con queste cose, sia
direttamente che indirettamente, sia nella sfera pubblica che in quella
privata. Berlusconi dirà sicuramente che ciò accade perché contro di lui esiste un pregiudizio instancabilmente e maliziosamente
alimentato dalla sinistra per screditarlo e demonizzarlo. Ma non è così: o
meglio, il tentativo di demonizzarlo c'è, ma il tentativo non ne spiega il
successo. In realtà, sospetti e diffidenze, nonché il
successo della demonizzazione ora detta, si spiegano con quella cosa che
Berlusconi conosce benissimo e che si chiama conflitto d' interessi. È il conflitto
d'interessi - a dispetto di ogni promessa mai sciolto,
ma sempre furbescamente aggirato - che gli ha fin qui impedito di incarnare
qualunque immagine istituzionale vera; è quel nodo che lo rende un candidato
dato per perdente alle prossime elezioni perché perdente è il bilancio dell'azione
del suo governo, di continuo condizionata da quel conflitto, che si trattasse
della televisione, della magistratura, del calcio, della legislazione
societaria, delle banche o di che altro. È il conflitto d'interessi
che dal 2001 rappresenta la palla al piede per il ruolo politico del capo della
destra, tra l'altro sottoponendone la maggioranza a continue, sfibranti,
tensioni. È altresì questa situazione che oggettivamente alimenta non
solo le voci circa sue presunte mosse improprie (come sarebbe quella di una scalata a una casa editrice) quanto quel clima più
generale fatto di progetti avventurosi, di protagonisti improbabili e di
rilassatezza dei controlli e delle regole che da tempo si respira nel Paese.
Non è una nuova tangentopoli, certo. Ma è qualcosa che alla fine produce un
intreccio tra politica e affari egualmente, o forse anche più, patologico, dal
momento che sulla scia dell'esempio fornito dal presidente
del Consiglio, per politica oggi si deve intendere quasi esclusivamente la rete
di relazioni, il circuito di influenze, i disegni di potere, le leve
economico-finanziario-giornalistiche facenti capo non già a partiti e correnti
ma a singole individualità impegnate in un accrescimento di potere anch'esso,
alla fine, esclusivamente personale. Talvolta avventurieri. Non c'è più un
sistema politico corrotto, si direbbe, non c'è più una corruzione sistemica,
insomma: ora è piuttosto il tempo dei disegni spregiudicati di pochi capi
solitari.
Ernesto Galli Della Loggia
Corriere
sdella Sera di giovedì 11 agosto 2005