FLOP ART MADE IN USA
Due settimane prima che Katrina mettesse in ginocchio
New Orleans, al Louisiana State Museum si discuteva sull’ipotesi di
privatizzare tutti i musei statali nella città del jazz. L’idea di puntare sul
privato era di Robert Mac Donald, ex direttore dei musei pubblici di New
Orleans, che in agosto aveva ultimato un’analisi sulle
condizioni finanziarie del Louisiana State Museum, e le sue conclusioni erano
assai critiche. Non fosse stato per l’0uragano, il
dibattito sulla privatizzazione dei musei di New Orleans sarebbe iniziato alle
9 di mattina del 16 settembre e si prevedeva lo scontro tra due posizioni
diametralmente opposte: da una parte i membri del consiglio d’amministrazione e
dall’altra Angèle Davis, segretario di Stato presso il dipartimento della
Cultura della Louisiana.
A differenza dell’Europa, dove è lo Stato che ha in
gestione la maggior parte dei musei, negli Usa è il capitalismo a dettare
legge: i musei più forti crescono, le collezioni migliori si espandono, le
esposizioni più valide danno profitti, il merchandising ripaga. Ma dopo anni in
cui l’orientamento di musei, biblioteche e istituzioni culturali è stato decisamente a favore della privatizzazione, ora anche negli
Usa si dibatte se sia opportuno applicare al mondo della cultura le regole del
libero mercato. E ci si domanda se è sempre
nell’interesse del pubblico che sia la concorrenza ad attirare finanziamenti,
collezionisti e visitatori. Il caso del Milwaukee
Public Museum è uno degli esempi che mette in luce che la privatizzazione non è
sempre la risposta adatta ai problemi delle istituzioni culturali.
Nel 1992 il Milkwaukee Public Museum, uno dei più
straordinari musei di storia naturale degli Usa, fiì
in mani private per delibera del consiglio comunale. Dietro a questa decisione
c’era la convinzione che i finanziatori del museo sarebbero stati più propensi
a donare soldi a un’istituzione privata che non
pubblica, sulla base dell’idea che i privati sanno amministrare meglio il
denaro. Nel decennio successivo il museo di Milkwaukee sembrava avesse
raggiunto quasi il prestigio di istituzioni come il
Museum of Natural History o il Field Museum di Chicago. Ma
qualche mese fa è emersa una realtà ben diversa. Dietro a
una facciata di grande floridezza si era creata una drammatica situazione, con
un ammanco di 4 milioni di dollari: il 45 per cento dei dipendenti è stato
licenziato e il museo è in stato disastroso.
A puntare il dito contro la privatizzazione di istituzioni artistico-culturali è stato di recente
Michael Kimmelman, critico d’arte del “New York Times”. “A decidere non sono
più i curatori, ma gli interessi commerciali esterni, i ricchi collezionisti, i
dirigenti miopi”, ha scritto Kimmelman, prendeno spunto da un altro caso
–quello del Los Angeles County Museum of Art, dov’è in
corso la mostra sui tesori del faraone Tutankamon. Il museo di Los Angeles ha
affittato le sue sale e il suo nome prestigioso a una
società commerciale, la Aeg Live Exhibitions, per alelstire una mostra sull’età
dell’oro dei faraoni. I 120 reperti archeologici sono esposti a Los Angeles
fino a novembre, dopo di che andranno in Florida, al Museum of Art di Fort
Lauderdale e nel maggio 2006 saranno al Field Museum di Chicago. Una mostra
itinerante realizzata da una società commerciale che nel suo sito Internet si
vanta di essere “una delel più grosse società al mondo nel campo dello sport e
dell’entertainment”. Che alla Aeg Live Exhibitions
interessano i profitti e non la cultura si vede già dal titolo
dell’esposizione, in cui il nome del faraone è stato ridotto ad un diminutivo
da star del baseball: non Tutankamon, ma “The Tut Show”, più appetibile per un
pubblico culturalmente poco sofisticato. “una vergogna:
standard sempre più bassi, abdicazione alle responsabilità, all’integrità”,
prosegue Kimmelman: “I soldi dettano legge. Ma
questa logica corrompe sempre di più l’etica delle istituzioni culturali”.
Il caso del Los Angeles County
Museum è tutt’altro che isolato. Il Boston Museum of
Fine Arts lo scorso anno ha dato in prestito 21 dipinti di Monet
all’Hotel-Casinò Bellagio di Las Vegas. I quadri sono stati esposti in una
galleria d’arte presso il casinò gestita dalla Pace Wilderstein, un’impresa
commerciale che non ha alcuna pretesa di interessi
culturali. Il museo di Boston si difende sostenendo che portare nella città del
gioco d’azzardo i dipinti del noto pittore impressionista è un modo per offrire
al grosso pubblico la possibilità di ammirare opere d’arte che altrimenti non
avrebbe mai visto. Ma gli esperti sottolineano che i
continui spostamenti di dipinti comportano grossi rischi: danni nel trasporto,
furti, smarrimenti. Sostengono che i quadri di valore dovrebbero lasciare i
musei solamente in casi rari, magari per completare il particolare aspetto di
una mostra.
Il “Tut Show” al Los Angeles
County Museum è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso per Andrea
Rich. Dopo dieci anni alla direzione del museo, la Rich si è dimessa in aperto
conflitto con Eli Broad, potente membro del consiglio d’amministrazione nonché collezionista d’arte contemporanea che pretendeva di
esercitare eccessivo controllo sulle attività del museo. Broad che è al 70°
posto nella classifica della rivista “Forbes” degli uomini più ricchi al mondo,
ha donato 60 milioni di dollari al Los Angeles County
Museum. Ma un nuovo lascito di 12 milioni di dollariarriverà solo a due
condizioni: primo, che venga costruita una nuova ala
del museo intitolata a suo nome e gestita in proprio; secondo, che sia lui a
scegliere il vice-direttore del museo responsabile dell’arte contemporanea.
Davanti a queste pretese la Rich se n’è andata sbattendo la porta, anche perché
sarà il denaro della contea a pagare per la nuova ala benchè il museo sia
pubblico, e dunque esentasse.
Quando nel cda dei musei entrano persone come Eli Broad le
cose si complicano. Miliardari e uomini d’affari
pretendono di gestire queste istituzioni con la logica del profitto. Ora musei,
biblioteche e istituzioni culturali si trovano a rispondere del loro operato sulla base di resoconti trimestrali tipici della
mentalità che vige a Wall Street. Per questi businessmen il concetto di non
profit è obsoleto. Quello che conta è se il numero di ingressi
venduti è in aumento, il bilancio è in crescita e lo spazio espositivo è
impiegato al massimo.
“Musei e biblioteche non sono imprese commerciali”,
commenta Kimmelman del “New York Times”: “La crescita non è necessariamente un
fatto positivo e ingrandirsi non è sempre una cosa
saggia, anzi, spesso è vero il contrario”. Ne sa qualcosa Thomas Krens che in
quasi vent’anni alla direzione del Guggenheim ha tentato di trasformare il
museo di Museo di New York in una sorta di corporation
dell’arte contemporanea con un approccio più vicino al business che non alla
cultura. Nella visione di Krens un solo spazio espositivo, quello sulla Quinta
Strada, non era sufficiente. Voleva due nuove sedi a New York, una a Las Vegas
e due in Europa, a Bilbao e Berlino, oltre alla sede storica a Venezia sul
Canal Grande. L’idea era di creare una struttura multinazionale che potesse ospitare mostre itineranti, ammortizzando così alti
costi d’allestimento. Krens voleva tirara fuori dai
magazzini collezioni che riteneva fossero sottoutilizzate e allo stesso tempo,
avendo moltiplicato lo spazio espositivo, voleva far crescere in modo
esponenziale la collezione di quadri del museo.
Ma per costruire nuove sedi e
comprare dipinti servivano finanziamenti, e Krens tese una mano al miliardario
Peter B. Lewis. Fondatore, presedente e amministratore delegato della compagnia
d’assicurazione Progressive Corporation (14mila dipendenti, fatturato annuo di
4,8 miliardi di dollari) Lewis ha donato al GUGGENheim oltre 62 milioni di
dollari, ed è stato ringraziato diventando presidente del cda del museo. Ma nel 2002, prima di donare altri 12 milioni di dollari,
Lewis ha imposto che la megalomania di Krens fosse ridimensionata. A farne le
spese è stato lo staff che è ora di 181 dipendenti contro i 391 del periodo di
massima epansione. Chiusa la sede di Soho, sospesi i progetti di sedi a
Salisburgo e Tokio e quello di aprire un Guggenheim in Brasile, Cina e Korea.
“La morale”, conclude Kimmelman, “è che più grande non
significa migliore. Nei musei l’unica cosa che conta è la
qualità”.
Andrea Visconti
L’espresso del