SALUTE
MENTALE
L’UTOPIA RESISTE 25 ANNI
DOPO BASAGLIA
Il
29 agosto del 1980 moriva lo psichiatra padre della legge 180 che sancì la
chiusura dei manicomi in Italia: la storia le idee e un
bilancio di quella rivoluzione.
Una sera di
ottobre del 1979, a Trieste. Il manicomio era ormai stato chiuso e
si lavorava fuori, nella città: era stata
approvata la legge 180. Quella legge che, con un gesto «umanamente
comprensibile» e con un semplice atto di giustizia, aveva restituito alle
persone ridotte a «matti da legare» lo statuto di cittadini, il diritto
a esistere nel contratto
sociale.
Quella
sera tutto
il gruppo di lavoro era riunito per fare festa nella direzione dellospedale
psichiatrico, dove Franco Basaglia abitava.
Ormai
era deciso: sarebbe partito per Roma. Eravamo in tanti a salutarlo. Ridevamo con
lui prendendo in giro i suoi tic, le sue debolezze,
i suoi modi di corrucciarsi. il quadernino per i
numeri di telefono che sempre perdeva, i racconti del suo recente viaggio
in Brasile.
Coprivamo
con un’allegria sopra le righe la malinconia che già si
faceva strada in ognuno: non volevamo ci lasciasse, eravamo orgogliosi e
fieri di essere stati testimoni di svolte che si sarebbero rivelate
storiche. Partiva per Roma accettando una
scommessa più grande, forse decisiva:
quella
di estendere a tutta l’Italia le conquiste ottenute a
Trieste.
Dieci
mesi dopo, era il 29 agosto del 1980, ci ritrovammo tutti al suo funerale a
Venezia.
Le
debolezze della psichiatria.
Entrando da direttore nel manicomio di Gorizia nel
1961, Basaglia aveva dovuto interrogarsi a fondo sulla consistenza
scientifica della psichiatria, sul significato della malattia, sulla
funzione del manicomio, sulla possibilità della cura. Aveva così scoperto
che la psichiatria fondava il suo operare non su certezze scientifiche, ma su
convinzioni quanto mai deboli e incerte. E che su queste incertezze si
costruivano istituzioni tota lizzanti e violente,
metodi di cura assoluti e oggettivanti fino alla segregazione,
all’elettroshock, alla negazione della persona stessa. Il lavoro
quotidiano di Basaglia scosse dalle fondamenta
questa costruzione ideologica. Scelse di guardare le persone e non la
malattia, cercando ostinatamente di restituire significato a percorsi
umani devastati, alle storie, agli affetti, ai sentimenti fino ad allora negati dal manicomio. E da allora fu chiaro
che quella sofferenza che chiamiamo «malattia mentale» non risponde ad
alcun decorso inesorabile, ma che ben diversamente si gonfia, si piega o si frantuma a seconda di come la si guarda e la si
ascolta, di come ci si avvicina a chi vi è rimasto intrappolato. Che la malattia mentale non è un’entità granitica, un’evidenza
biologica, un’ipoteca irreversibile sulla condizione umana. Che
le ferite, le storture, i sobbalzi dell’esistenza
di questi! uomini e donne assomigliano ai nostri, che
quel dolore ci riguarda ed è comprensibile, come lo è tutto ciò che
appartiene all’umanità che è in noi.
Da
qui è nata la possibilità dell’ascolto, della comprensione, della cura. Da
qui si cominciò a capire quali tempi e quali luoghi può avere un autentico percorso di cura e di guarigione.
E che si potesse guarire lo dimostravano le
innumerevoli storie di donne e di uomini
Da
allora sì ripetono storie di guarigione che, liberati dall’internamento,
ritrovavano la strada della loro vita.
L’urgenza del cambiamento che Basaglia avvertiva drammaticamente e la
sua forza di credere nell’utopia della realtà è ciò che continua a
sorprenderci ancora oggi. La possibilità di alimentare
utopie, desideri, sogni sembra che oggi ci sia data solo a patto che se ne
rimandi la realizzazione in un altrove o in angusti spazi privati. Oggi
sembra prevalere l’ingombro dell’immutabile dato di fatto: intoccabili gli
assetti istituzionali, evidenti i limiti delle risorse, certe e concrete le cause della malattia,
indiscutibile il bisogno di sicurezza e di controllo, pericolosa e
minacciosa la presenza di gruppi e soggetti diversi. Insomma,
l’ineluttabilità e l’immutabilità del dato di fatto. Di una realtà che
dobbiamo accettare così com’è, di cui non possiamo sospettare l’incertezza
e che non può essere cambiata.
L’utopia
diventa possibile.
Basaglia, con la sua ostinata testimonianza, ha
reso evidente che l’impossibile diventa possibile, che l’utopia può
stare nel nostro quotidiano, può diventare realtà.
Forse
è il lascito più straordinario che continua a sostenere il nostro
lavoro, a contagiare i giovani, ad alimentare le
esperienze innovative.
Ed
è per questo che sento fuori luogo il ricorrente tentativo, tutto italiano,
di rinchiuderlo nei memoriali.
Il
Cittadinanza, persona,
individuo sono le parole che ricorrono nel documento di Helsinki
e segnano la svolta che oggi viene richiesta a tutti i
Governi europei per uscire da una condizione non più accettabile per le persone
con disturbo mentale e le loro famiglie.
Sono le parole che meglio
esprimono il contributo di Franco Basaglia: la cura e il lavoro terapeutico si
possono materializzare solo garantendo cittadinanza e diritto, rispettando il
valore dell’esperienza umana, valorizzando la singolarità e la differenza che
ognun porta con la sua storia.
Oltre la legge
180.
Il contributo di Franco Basaglia non si esaurisce dunque con la fine dei
manicomi e la legge 180 ma costringe, se si vuole affrontare la sfida del diritto alla cura e alla
salute per tutti, a ripensare alle strategie e alle forme di organizzazione dei
sistemi sociali e sanitari. A spostare i percorsi di cura e di
assistenza dagli ospedali e dalle grandi istituzioni ai contesti di vita
dei vecchi, delle persone con malattie croniche e invalidanti, degli uomini e
donne che per varie ragioni sono indeboliti nel corpo, nel diritto e
nell’identità.
L’innovazione
delle politiche socio-sanitarie deve
molto a Franco Basaglia. L’universale diritto alla cura e alla salute, che oggi
tutti rivendichiamo ma che, di questi tempi, con
preoccupazione siamo costretti a difendere, ha mosso i primi passi assieme al
primo internato che usciva dalla porta aperta dell’ospedale psichiatrico di
Gorizia.
E’,
dunque, evidente quanto oggi la vita e il destino delle persone con disturbo
mentale e delle loro famiglie non siano più come prima. Operatori e operatrici, volontari, familiari, amministratori,
cittadini, persone con disturbo mentale, sempre pi presenti con le loro
associazioni, hanno potuto sperimentare ovunque culture e pratiche innovative e
contribuiscono nella quotidianità al cambiamento. Ma
per quanto una rete di servizi sia ormai presente in ogni provincia e in ogni
azienda sanitaria italiana, le risorse messe in campo soffrono di molte
approssimazioni amministrative e si mostrano insufficienti. E tuttavia appare
evidente quanto la legge abbia stravolto il quadro
precedente: oggi sono attivi nel territorio più di cinquemila psichiatri. Erano
poco più di settecento alla fine degli anni 70. Più di duemilacinquecento
psicologi: erano poche decine. Più di quarantamila gli infermieri professionali:
nei manicomi c’erano solo infermieri generici. Un
numero cospicuo di assitenti sociali, riabilitatori, educatori, maestri, attori
vengono a integrare e arricchire il quadro di queste
risorse umane messe in campo. Le cooperative sociali intervengono numerose nei
processi riabilitativi e di
integrazione.
Il
rapporto del 2001 del ministero della Sanità oltre a fornire questi
dati confermava la presenza di un centro di salute mentale quasi ogni centomila
abitanti, 270 servizi psichiatrici di diagnosi e cura negli ospedali
generali e 17mila posti residenziali diversamente
distribuiti in tutte le Regioni, sessanta case di cura private e accreditate e
ventitré cliniche psichiatriche universitarie.
Di
recente sono aumentati i centri di salute mentale aperti 24 ore su 24 sette
giorni su sette.
In
questo quadro molti sono gli esempi positivi e le
azioni di alcune regioni e di molti direttori generali dimostrano che
ovunque è possibile operare scelte di campo e investire risorse per la
realizzazione di servizi sensati.
I
Csm 24 ore, 7 giorni su 7, sono presenti in più regioni e un recente rapporto
del ministero ne conta più di 50.
Analogamente Spdc, con buone qualità “abitative” e modalità di
funzionamento adeguate e con efficaci legami con il
territorio, sono presenti in molte regioni: da Merano ad Aversa, a Trieste,
a Pozzuoli, a Mantova, a Campobasso, a Matera. E ancora, sono evidenti
esperienze di programmi residenziali e di
inserimenti lavorativi strettamente connessi alle reti dipartimentali e
gestiti da cooperative sociali e associazioni.
L’assistenza resta scadente. Eppure la qualità dell’assistenza resta in generale scadente: i
centri di salute mentale, tranne quei cinquanta, sono aperti da sette a dodici
ore al giorno per non più di sei giorni alla settimana. Immiserendo e
vanificando i percorsi di cura possibili. I servizi di diagnosi e cura sono spesso angusti, collocati in luoghi indecenti,
con le porte sbarrate dove legare le persone diventa consuetudine. Una
ricerca recente dell’Istituto superiore della
Sanità rivela che otto servizi su dieci usano queste pratiche. Le strutture
residenziali finiscono spesso per essere luoghi
pietrificati, dove i percorsi abilitativi e di socializzazione si
snaturano in un intrattenimento senza tempo e in proposte di attività inutili e
infantilizzanti. In molte regioni le indicazioni dei progetti obiettivi
nazionali e delle “buone pratiche” vengono
ignorati. Fino alle scelte di dirottare il grosso delle risorse per
finanziare la gestione di strutture neomanicomiali come
è accaduto nel Lazio, alla confusione organizzativa e all’abbandono
dei pazienti a più basso potere contrattuale nei circuiti
assistenziali privati come in Lombardia, alla frammentazione dei Dsm, come
è accaduto in Toscana e in Umbria, alla proliferazione di strutture
concentrazionarie, nuovi veri e propri manicomi, come in Calabria o in Sicilia.
In diverse aziende sanitarie i Dsm languono spesso abbandonati a se.stessi o in condizioni di pesante marginalità rispetto ad altre
attività sanitarie o sociali ritenute più
importanti.
Si capisce così che
l’abbandono denunciato dalle famiglie, l’inguaribilità e la
cronicità che sembrano riemergere dal passato, nascondono l’inerzia e
l’incapacità della psichiatria e dei governi locali di vedere i propri
limiti e di produrre organizzazioni efficaci, oggi possibili.
Le nuove sfide. Venticinque anni dopo
quella svolta, è davvero chiaro quello che si può
fare.
Prima
di tutto smetterla di parlare della legge 180 come se fosse questa a impedire la crescita e lo sviluppo virtuoso dei servizi di
salute mentale: l’unica cosa che la legge impedisce è il manicomio, il
sequestro dei diritti e della dignità delle persone che attraversano
l’esperienza del disturbo mentale.Sono i governi regionali che devono
assumere responsabilità e iniziativa. Riformulare con attenzione i piani sociosanitari, restituire risorse e
promuovere articolati sistemi di integrazione. Avviare la
realizzazione di centri di salute mentale aperti 24 ore su 24, sette giorni su
sette. Favorire lo sviluppo e la crescita delle cooperative sociali. Restituire forza e
capacità al servizio pubblico per coordinare e integrare l’offerta dei
privati. Per impedire che la debolezza delle politiche
di welfare alimenti la crescita di un privato privo di regole e
autoreferenziale. Rendere belli e accoglienti i
luoghi della cura e del vivere per le persone che attraversano i servizi.
Ancora molte regioni sono disattente, investono poco e male in termini di
valorizzazione e formazione delle risorse umane.
Al contrario, la regione Sardegna, per esempio, ha
scelto di assumere la questione psichiatrica come una delle cinque priorità
all'interno del suo piano sanitario, investendo di conseguenza. Gli
assessorati del Friuli Venezia Giulia e della
Toscana hanno prescritto, nelle linee di gestione per le aziende sanitarie
per il 2005, l’abolizione del ricorso a qualsiasi forma di contenzione.
Sembra questa la strada da percorrere. Operare
scelte di campo decisive per ridurre l’imbarazzante
dissociazione non più tollerabile tra pratiche ed enunciazioni
teoriche, tra i principi e i modelli organizzativi, tra le risorse in
campo e i percorsi reali di cura. Oggi si può.
Peppe
Dell’Acqua
Direttore
Dipartimento salute mentale – Trieste
Il
sole24ore sanità 13/