La sindrome
antiriformista
Nel 2001,
un certo numero di italiani, inferiore al totale dei
consensi ottenuti dal centrodestra, aveva sperato fosse arrivato al governo un
clone di Margaret Thatcher. Ma era solo Silvio Berlusconi. Ora, altri italiani,
anch'essi minoritari rispetto ai consensi del centrosinistra, sperano che, nel
2006, arrivi al governo un clone di Tony Blair. Ma temono sia solo Romano Prodi. Forse però Berlusconi, che non è
riuscito, o non ha voluto essere la Thatcher, e Prodi, che non è Blair, né,
forse, aspira a esserlo, sono solo la metafora della «sindrome
antiriformista», della quale, a destra come a sinistra, soffrirebbe il Paese.
La domanda che ci si dovrebbe porre non è, allora, «da
chi» gli italiani vogliano essere governati, bensì «come» vogliano essere
governati. Di fronte al clamoroso fallimento del riformismo di centrodestra e
alla preoccupante ma non casuale afasia di quello di centrosinistra temo che la non confessata e non confessabile risposta degli
italiani sia questa: come lo siamo sempre stati. Le generiche dichiarazioni di
buone intenzioni dietro le quali si barricano sempre
più spesso i nostri uomini politici «il Meridione non è un problema, è
un'opportunità», «occorre recuperare competitività alla nostra economia»;
Vendola che oppone ai dati del governatore uscente, Fitto, «la poesia» (e
vince!) non sono altro, infatti, che una sorta di abdicazione della Politica, con
la « P » maiuscola, di fronte all'ostilità degli interessi organizzati per le
riforme e persino al diffuso desiderio di conservazione della gente comune. Un modo della politica, con la «p» minuscola, di difendersi,
rifugiandosi nell'ordinaria amministrazione. Direbbe il sociologo, sono
il rifiuto, da parte dei singoli schieramenti, di individuare e definire una
propria constituency, una propria «base sociale», nella convinzione di poter
accontentare tutti. Nei Paesi in cui la scelta di schieramento
è anche scelta fra programmi alternativi, conservatore e progressista, chi ha
un programma ben definito è condannato a scontentare qualcuno, i cui interessi
il suo programma minaccia di mettere in discussione. E' la logica della
Politica. Ma, da noi a differenza di quanto è accaduto nella Gran Bretagna
della Thatcher e di Blair, negli Stati Uniti di Reagan, Clinton e Bush, e sta
accadendo nella Germania di Schröder la classe politica non sembra disposta ad
affrontare tale logica perché sa che il Paese la punirebbe. Siamo
tutti riformisti solo quando il riformismo riguarda gli altri. Così,
dopo la sconfitta, nel centrodestra è partita la corsa
di tutti contro tutti al recupero dei consensi delle antiche clientele. C'è chi
pensa si debba lisciare il pelo ai sindacati, rinnovando il contratto del pubblico impiego alle loro condizioni; riprendere a
concedere sussidi a pioggia al Meridione e alle imprese; tollerare i molti
parassitismi; non parlare più di liberalizzazione delle professioni,
privatizzazione di certi servizi statali e locali, apertura al mercato del
sistema finanziario. «Come prima, più di prima» recitava una vecchia canzone.
E, probabilmente, già lo pensano molti, anche a sinistra. Per vincere le
elezioni non servono i programmi. Anzi. E' sufficiente, e meglio, ammiccare. Si
dice che ogni Paese abbia la classe politica che si merita. Il paradosso
nostrano è che gli italiani sono riusciti sia a votare
Berlusconi, credendolo il clone della Thatcher, sia a bocciare, poi, ciò che è
stato e che, in fondo, più ne rifletteva i vizi. La parodia di
una rivoluzione liberale. Annunciata e non realizzata.
Piero Ostellino
Corriere
della Sera di giovedì 14 aprile 2005