Hitler: la disfatta di un uomo banale
Lo studioso Buruma
interviene nella polemica sull' opera del regista
Hirschbiegel in cui il Führer è interpretato da Bruno Ganz
Una delle
illusioni umane più diffuse e condivise è la
convinzione che gli eroi vivano per sempre. Per i suoi fan Elvis non morirà mai: proprio per questo si registrano regolari
avvistamenti e apparizioni nelle parti più remote degli Usa. In effetti,
l'immortalità non deve necessariamente essere intesa in senso letterale. In
Cina, Mao è entrato a far parte di un'eletta schiera di
figure storiche che sono assurte al rango di divinità popolari. L'immagine «
sacra » di Mao viene quindi esposta nelle abitazioni dei contadini, nei taxi e
negli autotreni, a protezione dei suoi fedeli. Di solito, i tassisti tedeschi
non usano l'immagine di Hitler per proteggersi dal malocchio. E ben pochi
tedeschi avrebbero il coraggio di etichettare Adolf Hitler come «grande». È
possibile che questa differenza derivi dal fatto che i tedeschi, a differenza
dei cinesi, non possono accampare la scusa della censura di Stato per ignorare
i crimini del loro dittatore e l'eventuale complicità di genitori e parenti.
Inoltre, in Europa la tradizione di venerare le figure
storiche come divinità pagane, pur non assente, è comunque molto meno forte e
sentita. Tuttavia, nonostante queste innegabili differenze, a mio avviso lo
spirito di Hitler che ossessiona l'Occidente presenta
dei chiari aspetti di idolatria. L'ultimo film sul Führer, La caduta, del regista tedesco Oliver
Hirschbiegel, sembra confermare in pieno questa teoria. L'opera,
una magistrale ricostruzione degli ultimi giorni vissuti da Hitler nel suo
bunker, mostra il dittatore impegnato a spedire ordini ad armate
spazzate via dal nemico e a preparare meticolosamente la propria dipartita. Il
film si basa in parte sulle memorie di Traudl Junge, la segretaria di Hitler, e
in parte sul libro di Joachim Fest, La disfatta (Garzanti, pp. 176, e 16). La
trama del film è ricca di situazioni melodrammatiche e si ispira
in modo chiaro al Crepuscolo degli dei di Wagner: un despota sconfitto che
trascina alla distruzione tutto il suo popolo, una megalopoli ridotta in
cenere, gesta di eroismo disperato di fronte a un'ondata di barbarie
inarrestabile e, naturalmente, la morte violenta del tiranno e della sua amata,
Eva Braun. Al centro dell'intera rappresentazione c' è
proprio Hitler, interpretato in modo quasi perfetto da Bruno Ganz. Il dittatore è dolorosamente e faticosamente presente nei suoi
gesti più minuti. Il Führer, ormai ridotto a un
relitto umano, con una mano scossa da un tremito irrefrenabile perennemente
nascosta dietro la schiena, passa il tempo a infuriarsi con i generali,
colpevoli di non riuscire a dare corpo alle sue fantasie. Ma lo vediamo anche
intento a pizzicare le guance imberbi di ragazzini in uniforme, mandati a
morire inutilmente. Poi in rapida successione vediamo
l' Hitler privato, capace di parlare con dolcezza a sua moglie, la sorridente
Eva, ma anche il funzionario irreprensibile, che tratta le segretarie con la
massima correttezza e il buongustaio che si complimenta con la cuoca per gli
eccellenti ravioli. Insomma, si tratta di un uomo in
carne e ossa, vividamente raffigurato sul grande schermo in un modo davvero
inedito. E questo è profondamente perturbante, specie in Germania, dove le
raffigurazioni di Hitler, nei film e nell'arte, sono state
soggette a un vero e proprio tabù. Il notissimo regista Wim
Wenders è uno dei più accaniti detrattori del film. Nel suo articolo su
Die Zeit ha accusato Hirschbiegel di aver creato un
film horror che non ci insegna nulla sul vero orrore di Hitler. La parola
chiave in questa critica è Verharmlosing ,
letteralmente «rendere inoffensivo». Hitler assume un ruolo così patetico,
nella sua caduta, che il film sembra quasi invitarci a compatire questa tragica
figura, i cui sogni stanno per svanire nelle fiamme. Questa critica, sebbene non interamente infondata, è però
leggermente fuori strada. Infatti, il tema de La caduta non è Hitler, il mostro
onnipotente, responsabile della morte di milioni di uomini. Il tema è la
capacità di un popolo di adorare e obbedire ai
capricci di un idolo, malgrado la sua abiezione. Si
tratta chiaramente di un' ossessione di tipo religioso. Io
credo che l'attacco di Wenders nasconda un'ansietà più profonda, il timore
della resurrezione di Hitler, della sua immortalità. Wenders nota
inoltre che al pubblico viene mostrata, nei dettagli
più cruenti, la morte di tutti i protagonisti del film, mentre durante il
suicidio di Hitler, la cinepresa si distanzia « pietosamente ». Perciò la sua morte risulta ancora avvolta nel mito e, quindi,
continua a vivere e perpetuarsi. Per un certo verso, quindi,
il film di Hirschbiegel è ancora più smitizzante del libro di Trevor Roper
pubblicato nel 1947, Gli ultimi giorni di Hitler (Rizzoli, pp. 320, e
8,73), perché non mostra i tedeschi come selvaggi assetati di sangue, ma come
persone riconoscibili. A seconda degli individui e,
talvolta, delle circostanze, la pellicola ci mostra persone terrorizzate,
pusillanimi, coraggiose, sanguinarie, pietose, sconvolte e calcolatrici. Questo è sempre stato il punto focale degli scritti di Fest sulla
Germania nazista. Il suo obiettivo non è quello di giustificare e
tantomeno quello di onorare il nazismo, ma di recuperare una parte dell'onore
strappato ai suoi connazionali, dimostrando che si
trattava di normali e comuni esseri umani, che erano stati sedotti da un regime
tremendo. Certo, questa visione porta con sé un
rischio particolare di giustificazione, che né Fest né il film riescono a
superare totalmente. La segretaria smarrita e il ragazzino, come esemplari
ideali dell'innocenza tradita, non sono certamente i simboli più appropriati
con cui concludere una storia così tremenda. Eppure, il dilemma posto dal film non è causato dalle intenzioni di
chi l'ha prodotto o dalla possibilità che «renda inoffensivo» Hitler. A
differenza di Mao, che è davvero diventato un'icona inoffensiva nelle stampe di Andy Warhol e in centinaia di t shirt e oggetti ricordo,
il dittatore tedesco non può essere raffigurato in modo da suscitare tenerezza.
Bruno Ganz, a dispetto del suo sguardo triste e melanconico, non lo ha di certo
rappresentato in questo modo. La terribile paranoia e la rabbiosa
sete di sangue di Hitler sono presenti e chiaramente visibili. Il
dilemma è invece provocato dal racconto in sé. Se
Trevor Roper aveva ragione e Hitler ha deliberatamente
messo in scena la sua fine con lo stesso gusto kitsch per la sontuosa opera
lirica teutonica che ha permeato ogni altro aspetto della sua esistenza, allora
il film rappresenta questo aspetto alla lettera. L'abilità tecnica e la bravura
degli attori servono a ricostruire in modo letterale
questa visione lirica, che è una vera e propria rappresentazione cerimoniale di
una superstizione tribale. La fine di Hitler include tutti gli elementi di un classico rito di fertilità: il sacrificio del re in
modo che la vita possa rinascere in primavera. Si
ricordi che la morte e la resurrezione di Gesù Cristo non è che una versione
piuttosto recente di questo mito antichissimo. Come la fede
nell'immortalità degli eroi, questo è un concetto profondamente radicato.
I giovani piloti kamikaze giapponesi non sceglievano di morire perché credevano
nella possibilità di una vittoria miracolosa. Al
contrario, sapevano bene che la guerra era perduta, ma come giovani idealisti,
immersi nella letteratura romantica europea e nelle antiche tradizioni
giapponesi, erano persuasi che le loro morti sacrificali avrebbero
potuto far nascere qualcosa di migliore. In molte scuole giapponesi
questa parte della storia viene ancora raccontata in questo modo,
sottintendendo che oggi il Giappone deve la sua
libertà e prosperità alla morte eroica dei suoi kamikaze. I memoriali per le
vittime delle guerre precedenti alla seconda guerra mondiale, con le loro
fiamme eterne e le statue di bronzo chiaramente cristologiche, non sono solo
promemoria del sacrificio dei defunti, ma
rappresentano la nozione che il nostro benessere deriva in modo diretto da quel
sacrificio. Si tratta di martiri e come tutti i
martiri, le cui unghie, ossa e ciuffi di capelli sono tuttora venerati in
templi e chiese, sono immortali. Come dice l'iscrizione su una finestra della
cappella di Charterhouse: «Chi muore per l' Inghilterra
vive per sempre». Certamente questo non era lo scopo di chi
ha prodotto La caduta. Tuttavia,
concentrandosi soltanto sulla morte di Hitler e creando una nuova
rappresentazione della sua personale e angosciosa versione di rituali antichi,
gli autori del film contribuiscono alla perpetuazione della
sua presenza mitica nelle nostre vite, per quanto naturale e umana possa
essere la recitazione di Ganz. Wim Wenders aveva già criticato il documentario
su Hitler di Fest, puntualizzando che non è possibile limitarsi a mostrare le
raffigurazioni di sé lasciate dal Terzo Reich le grandiose parate, con le torce innalzate al cielo, le cerimonie di massa di sinistro
e occulto potere commentandole in modo ragionato e scettico. Secondo Wenders
gli spettatori rimangono comunque mesmerizzati dalle
immagini. Forse l'intento di Fest era proprio questo. Forse voleva mostrarci il
potere seduttivo di queste raffigurazioni. Ma questa può facilmente diventare
una comoda giustificazione per tutti coloro che ne
restarono soggiogati. Ridurre la rappresentazione di Hitler
al momento del suo crepuscolo è perturbante a prescindere dalle motivazioni.
È perturbante perché al pubblico rimane la sensazione
che ci fosse davvero qualcosa di grandioso, tragico e persino magico in questo
spettacolo catastrofico, che Hitler fosse grande, persino nella morte. Il film,
in breve, prende troppo sul serio la rappresentazione ordita da Hitler. Si tratta di un errore madornale, perché è evidente che,
mentre dobbiamo prendere sul serio i crimini del dittatore, non dobbiamo farci
contagiare dalle sue assurde fantasie pseudoreligiose. Sarebbe insensato e una
pura superstizione affermare che Hitler non possa essere rappresentato in un
film. È invece vero che la rappresentazione di questa odiosa
figura ottiene risultati nettamente superiori quando se ne mostra la banalità,
invece del suo lato grandioso. Questo non significa certo banalizzarne i
crimini. Piuttosto, pretendere che fosse un demone assolve in modo pretestuoso
tutti coloro che scelsero di esserne complici. Hitler
è stato, a tutti gli effetti, un uomo piuttosto ordinario, che è riuscito a
stimolare, sfruttare e dare espressione agli istinti peggiori di milioni di uomini e donne perfettamente ordinari.
Ian Buruma
(Traduzione del Gruppo Logos)
L'autore del libro
«Occidentalismo» Ian Buruma è nato in Olanda nel 1951 e ha vissuto a lungo in
Giappone. Per anni ha pubblicato i suoi reportage sulla «New York Review of
Books». Dopo aver insegnato a Gerusalemme, oggi è professore di Diritti umani al Bard College di New York. Nel suo ultimo libro
«Occidentalismo» (Einaudi), Buruma si impegna a sfatare
l'idea del radicalismo islamico come espressione di uno «scontro di civiltà». Secondo lo scrittore, la visione dell'Occidente che ispira
gli jihadisti non è affatto nuova, essendo già comparsa nella Germania nazista,
nei regimi comunisti e nell'impero giapponese.
Corriere
della Sera di giovedì 14 aprile 2005