LA SANITA’ UMILIATA

 

Una norma di poche righe, infilata nella Finanziaria, sfuggita a tutti in prima lettura, limita la cosiddetta mobilità sanitaria, la possibilità, cioè, di farsi curare od operare nelle strutture di una Regione diversa da quella di appartenenza. Ne usufruiscono in misura circa un milione di pazienti l’anno che si spostano per le loro esigenze cliniche dal Mezzogiorno al Centro-Nord. Ne deriva un costo aggiuntivo, sia perché le Asl di partenza, ultra indebitate, tardano all´infinito nel rimborsare quelle di arrivo, sia perché le tariffe sono in genere più alte che al Sud, sia, infine, per il mancato utilizzo delle strutture meridionali.

Ragionevole, quindi, porre un freno? Lo sarebbe se le strutture sanitarie offrissero prestazioni grosso modo analoghe in tutto il Paese, ma così non è. E di gran lunga. Ad esempio nelle operazioni di tumore alla mammella, il metodo inventato da Umberto Veronesi, la quadrantectomia, introdotto ormai in tutto il mondo per evitare, nella stragrande maggioranza dei casi, interventi demolitivi e lunghe degenze, è attuato solo nel 41% dei casi in Basilicata e nel 33% in Calabria, contro il 73% in Val d´Aosta (ma a Parigi la percentuale è del 91% e a Boston del 93%, mentre la media italiana è solo del 58%).

Se guardiamo alla prevenzione – essenziale per la diagnosi precoce e la sopravvivenza in questa patologia – ci troviamo con verifiche ancor più desolanti: si sottopongono alla mammografia una volta l’anno fra i 45 e i 69 anni, come indicato dai protocolli clinici, il 35% delle donne in Lombardia (ed è già poco) contro il 2% in Sicilia!

Se passiamo ad una patologia maschile e prendiamo il caso del tumore alla prostata, la sopravvivenza a cinque anni dall’operazione è del 34% in un ospedale siciliano contro il 48% della media nazionale. La casistica non è dissimile per le altre malattie gravi.

Dietro queste statistiche emergono le sofferenze, le ansie, le speranze di guarigione di centinaia di migliaia di persone ma anche l’aggravio subìto da tanti italiani, soprattutto meridionali, con l’introduzione di un federalismo devastante che spezzetta il welfare, sollecita l’insorgere di egoismi regionali, insidia l’eguaglianza dei cittadini. Gli squilibri e le ingiustizie sono state, peraltro, aggravate dalle politiche fiscali del governo in carica ma alla loro origine vi è lo storico e mai sanato divario tra Sud e Nord; così come, se la devoluzione minaccia di distruggere ogni solidarietà sociale su scala nazionale, il nefasto calcio d’inizio dello sfascio costituzionale è stato sferrato dal centrosinistra con la riforma del Titolo V. Più che meritorio appare, quindi, l’indirizzo del documento «I cittadini al centro della sanità» presentato come contributo al programma di governo del centrosinistra dalla Fondazione Italianieuropei e illustrato pubblicamente da Massimo D’Alema, Livia Turco e Ignazio Marino dell’Università di Filadelfia. Con urgenza prioritaria viene richiesta l´emanazione di nuove norme sul federalismo allo scopo di «fornire servizi sanitari adeguati e omogenei in tutto il paese». Denunciato il degrado dei servizi sanitari, peggiorati dopo l’introduzione del federalismo, il documento sostiene la necessità che il governo centrale mantenga la gestione macroeconomica della sanità e la garanzia delle prestazioni essenziali con la possibilità di esercitare un potere sostitutivo rispetto alle amministrazioni regionali inefficienti, altrimenti «libertà e autonomia mal amministrate si possono rapidamente trasformare in disuguaglianza e nella sanità questo si traduce in numero di vite salvate e in qualità di vita. « Il progetto (che gli interessati possono reperire sul numero ultimo di «Italianieuropei») elenca una serie di punti che qui posso solo adombrare (suddivisione tra ospedali e rete sanitaria territoriale, basata sul rilancio, la valorizzazione e l’aiuto dei medici di famiglia, anche attraverso studi associati forniti di apparecchiature diagnostiche e di personale infermieristico, in grado di assistere i malati 24 ore su 24, giorni festivi compresi, così da decongestionare i pronto soccorso e diminuire i ricoveri impropri; riorganizzazione e istituzione di fondi speciali per l’assistenza agli anziani non autosufficienti, la cura delle malattie mentali, le tossicodipendenze, le patologie rare). Un paragrafo specifico è dedicato alle strade percorribili per «separare la gestione delle aziende sanitarie dalla politica» e, in proposito, vengono esplicitamente ricordate le proposte della nostra rubrica «Linea di confine». Non torno, quindi, sull’argomento già ampiamente trattato su queste colonne anche se colpisce che un documento con primi firmatari D’Alema e la Turco debba ammettere che in proposito «non esprime una posizione condivisa da tutti». Se i dirigenti nazionali del più importante partito riformista non riescono ad imporre ai propri quadri regionali coerenti misure contro la lottizzazione le speranze di una svolta seria che differenzi, su un piano immediatamente percepibile dall’opinione pubblica, un governo di centrosinistra da quello Berlusconi appaiono davvero scarse.

Per il resto lo schema di «Idee per la sanità» è ricco di spunti importanti. Vi è, però, il pericolo che resti un documento di buone intenzioni se non si coniuga ad alcune poche e chiare scelte, che comportano tutte, al pari delle misure contro la lottizzazione, la consapevolezza dichiarata apertamente, delle alternative politiche, niente affatto pacifiche, che pongono. Se non si è disposti ad affrontarle meglio lasciar perdere. Al centro vi è la questione dei soldi. Senza dei quali i progetti restano sulla carta.

Ora, per quanto riguarda la sanità, l’Italia è in coda a quasi tutti gli altri partner europei sia come spesa pro capite sia come percentuale sul pil.

Si possono introdurre alcune razionalizzazioni per meglio equilibrare i bilanci ma non certo procedere a tagli per reperire gli investimenti necessari per grandi progetti come un Fondo per gli anziani disabili, lo sviluppo qualitativo delle strutture del Mezzogiorno, la messa in piedi di una efficiente rete territoriale per le cure a domicilio o il rilancio della prevenzione. Dunque è indispensabile aumentare le entrate sia smettendola con la criminalizzazione demagogica dei ticket che una parte non piccola della popolazione può benissimo pagare, sia reintroducendo una imposta finalizzata a ben precisi impegni (ad esempio in Germania il Fondo che permette l’accudimento degli anziani disabili è finanziato dall’abolizione di due festività all’anno), sia affrontando con determinazione il nodo dell’età pensionabile, al di là di quanto già stabilito. Proprio in queste settimane in Germania la coalizione Cdu-Spd si è accordata per aumentarla progressivamente a 67 anni. Analoga soglia è allo studio in Inghilterra, mentre in Spagna sono state avanzate proposte per incentivare la permanenza al lavoro fino a 70 anni. Da noi quando Berlusconi con una infelice battuta ha sostenuto una cosa giusta (talvolta capita anche a lui) e, cioè, di innalzare la soglia a 68 anni, subito si è beccato la reprimenda dei tre segretari confederali.

Eppure, che senso ha difendere gli anziani in veste di pensionati e abbandonarli alle famiglie o all’ospizio negli anni in cui hanno più bisogno di assistenza continua, di cure costose che l’Asl oggi non passa, di supporti riabilitativi proibitivi? Se si riflettesse sul fatto che il 40% della spesa sanitaria e metà di quella ospedaliera è assorbita dalla popolazione sopra i 65 anni si dovrebbe convenire sull’assurdità di avere l’incidenza sul pil per la previdenza la più alta d’Europa (circa il 13%) mentre quella per la sanità pubblica è tra le più basse (circa il 6%). Diminuire l’incidenza pensionistica e aumentare in corrispettivo quella sanitaria rappresenterebbe, quindi, una scelta riformista razionale e giusta. Per contro non è né razionale né giusto e neppure coerentemente riformista proporre programmi senza copertura.

Un altro tema che il documento ds sfiora soltanto è quello della cosiddetta aziendalizzazione, una di quelle parole introdotte con l’usbergo della razionalizzazione dei servizi ma che è servita a falsarne i fini (del resto non è lo stesso con la spuria dizione di «azienda Italia», o quella di premier-manager?). Bisogna tornare a ribadire che una Asl o un ospedale non sono una fabbrica di elettrodomestici ma un servizio pubblico destinato alla cura dei pazienti. Gli attivi o i passivi di bilancio, su cui apparentemente vengono misurati i manager della sanità, possono nascondere gravi storture: per esempio chiudere posti letto e reparti non particolarmente remunerativi laddove il rimborso è a prestazione (secondo la tipologia della malattia), mentre nelle Asl dove vige la quota capitaria (una somma per ogni cittadino residente nell’area) meno si lavora e meglio è, perché si iscrive all’attivo quanto si risparmia sulla cifra globale. Sul piano della responsabilità clinica l’aziendalizzazione sollecita poi comportamenti aberranti. Così in alcuni settori – soprattutto chirurgici o cardiologici – al primario viene richiesto un tot prefissato di operazioni all’anno.

Avviene, quindi, che i meno scrupolosi intervengano su pazienti che non ne avrebbero alcun bisogno. Non è un caso, per fare un altro esempio, che i parti in Italia siano ormai quasi esclusivamente cesarei. Costano di più, implicano una degenza più lunga, sono spesso inutili e non di rado hanno conseguenze sgradite.

Liberarsi della aziendalizzazione e tornare a un concetto etico di servizio pubblico, che non vuol dire spreco e disordine ma responsabilità consapevole, è quindi condizione per una sana svolta riformista. Possibile, ma se, anche in questo caso, si è disposti a correre una sfida politica. Dietro lo slogan aziendalista si profila, infatti, la mano pesante della politica.

Assessori e governatori scelgono persone di provata fedeltà (in base alle quote spartitorie della coalizione vincente), li battezzano col nome di manager, delegano loro le nomine di primarie e primarietti ma li tengono sotto scacco se deviano dalla retta via.

È veramente un miracolo di buona volontà, di capacità complessiva e di dedizione del personale sanitario se, in queste condizioni e con mezzi minori, la sanità sia in Italia mediamente buona e comparabile nelle regioni più avanzate a quella degli altri paesi dell’Europa occidentale. Malgrado tutto negli ospedali le cose vanno decisamente meglio che nelle aule scolastiche o nei tribunali o in tante amministrazioni pubbliche della Penisola. Nel nostro paese è possibile effettuare un trapianto di cuore o un bypass aorto-coronarico in tempi ragionevoli e senza spendere una lira. Se hai un malore a New York la prima cosa che ti chiedono è la tessera assicurativa o la carta di credito, non certo come ti senti. Il primo centro sinistra degli anni Sessanta e Settanta introdusse il Servizio sanitario nazionale. Al centrosinistra dei giorni nostri, che già largamente lo gestisce su scala regionale, spetta rilanciare, se andrà al governo, questo patrimonio straordinario del riformismo, un pilastro fondamentale per garantire non solo la salute ma l’eguaglianza dei cittadini, siano essi siciliani o lombardi.

 

Mario Pirani

 

Repubblica di sabato 26 novembre 2005

 

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