LA SANITA’ UMILIATA
Una norma di poche righe,
infilata nella Finanziaria, sfuggita a tutti in prima lettura, limita la
cosiddetta mobilità sanitaria, la possibilità, cioè,
di farsi curare od operare nelle strutture di una Regione diversa da quella di
appartenenza. Ne usufruiscono in misura circa un milione di pazienti l’anno che
si spostano per le loro esigenze cliniche dal Mezzogiorno al Centro-Nord. Ne deriva un costo aggiuntivo, sia perché le Asl di partenza, ultra indebitate, tardano all´infinito nel rimborsare quelle di arrivo,
sia perché le tariffe sono in genere più alte che al Sud, sia, infine, per il
mancato utilizzo delle strutture meridionali.
Ragionevole, quindi, porre
un freno? Lo sarebbe se le strutture sanitarie offrissero prestazioni grosso modo analoghe in tutto il Paese, ma così non è. E di gran lunga. Ad esempio nelle operazioni di tumore alla
mammella, il metodo inventato da
Se guardiamo alla
prevenzione – essenziale per la diagnosi precoce e la sopravvivenza in questa
patologia – ci troviamo con verifiche ancor più
desolanti: si sottopongono alla mammografia una volta l’anno fra i 45 e i 69
anni, come indicato dai protocolli clinici, il 35% delle donne in Lombardia (ed
è già poco) contro il 2% in Sicilia!
Se passiamo ad una
patologia maschile e prendiamo il caso del tumore alla
prostata, la sopravvivenza a cinque anni dall’operazione è del 34% in un
ospedale siciliano contro il 48% della media nazionale. La casistica non è
dissimile per le altre malattie gravi.
Dietro queste statistiche
emergono le sofferenze, le ansie, le speranze di guarigione di centinaia di
migliaia di persone ma anche l’aggravio subìto da
tanti italiani, soprattutto meridionali, con l’introduzione di un federalismo
devastante che spezzetta il welfare, sollecita l’insorgere
di egoismi regionali, insidia l’eguaglianza dei
cittadini. Gli squilibri e le ingiustizie sono state,
peraltro, aggravate dalle politiche fiscali del governo in carica ma alla loro
origine vi è lo storico e mai sanato divario tra Sud e Nord; così come, se la
devoluzione minaccia di distruggere ogni solidarietà sociale su scala
nazionale, il nefasto calcio d’inizio dello sfascio costituzionale è stato
sferrato dal centrosinistra con la riforma del Titolo V. Più che
meritorio appare, quindi, l’indirizzo del documento «I
cittadini al centro della sanità» presentato come contributo al programma di
governo del centrosinistra dalla Fondazione Italianieuropei
e illustrato pubblicamente da Massimo D’Alema,
Per il resto
lo schema di «Idee per la sanità» è ricco di spunti importanti. Vi è,
però, il pericolo che resti un documento di buone intenzioni se non si coniuga
ad alcune poche e chiare scelte, che comportano tutte, al pari delle misure
contro la lottizzazione, la consapevolezza dichiarata apertamente, delle alternative politiche, niente affatto pacifiche, che
pongono. Se non si è disposti ad affrontarle meglio lasciar
perdere. Al centro vi è la questione dei soldi. Senza
dei quali i progetti restano sulla carta.
Ora, per quanto riguarda
la sanità, l’Italia è in coda a quasi tutti gli altri partner europei sia come
spesa pro capite sia come percentuale sul pil.
Si possono introdurre
alcune razionalizzazioni per meglio equilibrare i bilanci ma non certo
procedere a tagli per reperire gli investimenti
necessari per grandi progetti come un Fondo per gli anziani disabili, lo
sviluppo qualitativo delle strutture del Mezzogiorno, la messa in piedi di una
efficiente rete territoriale per le cure a domicilio o il rilancio della
prevenzione. Dunque è indispensabile aumentare le entrate sia smettendola con
la criminalizzazione demagogica dei ticket che una parte non piccola della
popolazione può benissimo pagare, sia reintroducendo una imposta
finalizzata a ben precisi impegni (ad esempio in Germania il Fondo che permette
l’accudimento degli anziani disabili è finanziato
dall’abolizione di due festività all’anno), sia affrontando con determinazione
il nodo dell’età pensionabile, al di là di quanto già stabilito. Proprio in
queste settimane in Germania
Eppure, che senso ha
difendere gli anziani in veste di pensionati e abbandonarli alle famiglie o all’ospizio
negli anni in cui hanno più bisogno di assistenza continua,
di cure costose che l’Asl oggi non passa, di supporti
riabilitativi proibitivi? Se si riflettesse sul fatto che il 40% della spesa
sanitaria e metà di quella ospedaliera è assorbita
dalla popolazione sopra i 65 anni si dovrebbe convenire sull’assurdità di avere
l’incidenza sul pil per la previdenza la più alta d’Europa
(circa il 13%) mentre quella per la sanità pubblica è tra le più basse (circa
il 6%). Diminuire l’incidenza pensionistica e aumentare in corrispettivo quella
sanitaria rappresenterebbe, quindi, una scelta riformista razionale e giusta.
Per contro non è né razionale né giusto e neppure coerentemente riformista
proporre programmi senza copertura.
Un altro tema che il
documento ds sfiora soltanto è quello della
cosiddetta aziendalizzazione, una di quelle parole
introdotte con l’usbergo della razionalizzazione dei
servizi ma che è servita a falsarne i fini (del resto non è lo stesso con la
spuria dizione di «azienda Italia», o quella di premier-manager?). Bisogna
tornare a ribadire che una Asl
o un ospedale non sono una fabbrica di elettrodomestici ma un servizio pubblico
destinato alla cura dei pazienti. Gli attivi o i passivi di bilancio, su cui
apparentemente vengono misurati i manager della
sanità, possono nascondere gravi storture: per esempio chiudere posti letto e
reparti non particolarmente remunerativi laddove il rimborso è a prestazione
(secondo la tipologia della malattia), mentre nelle Asl
dove vige la quota capitaria (una somma per ogni
cittadino residente nell’area) meno si lavora e meglio è, perché si iscrive all’attivo
quanto si risparmia sulla cifra globale. Sul piano della responsabilità clinica
l’aziendalizzazione sollecita poi comportamenti
aberranti. Così in alcuni settori – soprattutto chirurgici o cardiologici – al primario viene
richiesto un tot prefissato di operazioni all’anno.
Avviene, quindi, che i
meno scrupolosi intervengano su pazienti che non ne avrebbero
alcun bisogno. Non è un caso, per fare un altro esempio, che i parti in Italia siano ormai quasi esclusivamente cesarei. Costano di più,
implicano una degenza più lunga, sono spesso inutili e non di rado hanno conseguenze
sgradite.
Liberarsi della aziendalizzazione e tornare
a un concetto etico di servizio pubblico, che non vuol dire spreco e disordine
ma responsabilità consapevole, è quindi condizione per una sana svolta
riformista. Possibile, ma se, anche in questo caso, si è disposti a correre una
sfida politica. Dietro lo slogan aziendalista si
profila, infatti, la mano pesante della politica.
Assessori e governatori
scelgono persone di provata fedeltà (in base alle quote spartitorie
della coalizione vincente), li battezzano col nome di
manager, delegano loro le nomine di primarie e primarietti
ma li tengono sotto scacco se deviano dalla retta via.
È
veramente un miracolo di buona volontà, di capacità complessiva e di dedizione
del personale sanitario se, in queste condizioni e con mezzi minori, la sanità
sia in Italia mediamente buona
e comparabile nelle regioni più avanzate a quella degli altri paesi dell’Europa
occidentale. Malgrado tutto negli ospedali le cose
vanno decisamente meglio che nelle aule scolastiche o nei tribunali o in tante
amministrazioni pubbliche della Penisola. Nel nostro paese è possibile effettuare un trapianto di cuore o un bypass aorto-coronarico in tempi ragionevoli e senza spendere una
lira. Se hai un malore a New York la prima cosa che ti
chiedono è la tessera assicurativa o la carta di credito, non certo come ti
senti. Il primo centro sinistra degli anni Sessanta e
Settanta introdusse il Servizio sanitario nazionale. Al centrosinistra dei
giorni nostri, che già largamente lo gestisce su scala
regionale, spetta rilanciare, se andrà al governo, questo patrimonio
straordinario del riformismo, un pilastro fondamentale per garantire non solo
la salute ma l’eguaglianza dei cittadini, siano essi siciliani o lombardi.
Mario Pirani
Repubblica di sabato 26
novembre 2005