IN PIAZZA CONTRO PECHINO: VOGLIAMO
VOTARE |
DAL NOSTRO
INVIATO HONG KONG - «Vogliamo la democrazia». «Vogliamo il suffragio
universale». Gli slogan sono stati ritmati per un intero pomeriggio da
migliaia di giovani e anziani, famiglie intere, studenti e lavoratori che
hanno cantato We shall overcome. E persino l'Internazionale.
Che hanno sfilato con la maglietta nera o con un nastro
nero in fronte. In segno di lutto. O con la t-shirt
che riproduce il volto di Che Guevara o quella con
un disegno che è una gabbia con il popolo cinese rinchiuso dentro. In
centomila (fonti polizia), o in 250 mila (secondo gli organizzatori) hanno
raccolto l'appello delle opposizioni, delle associazioni libere, della Chiesa
e hanno lanciato una sfida alla gerarchia comunista. «Siete dei bugiardi».
«Dateci i nostri diritti». «Non ci imbavaglierete».
La grande piazza del Victoria Park non ha contenuto
questa folla sorridente e determinata che ha cominciato a sfilare verso i
palazzi del governo e via via è diventata più
consistente riuscendo a richiamare dallo shopping anche i più perplessi e più
moderati. Il messaggio è chiaro. Bello. E pacifico.
«No alla dittatura». Pechino ha di che preoccuparsi. In diversi modi aveva
tentato di limitare la partecipazione alla protesta. Quattro giorni fa il
governatore Donald Tsang Yam-kuen, cattolico laureato in business administration ad Harvard, succeduto da qualche mese al capitalista rosso Tung Chee-hwa, il «pappagallo»
di Pechino, era a sorpresa comparso in tv e aveva esortato: «Non partecipate
al corteo». Proprio lui, che lo schieramento democratico di
Hong Kong aveva salutato con favore. E, invece, costretto a muoversi
con cautela per non irretire le gerarchie comuniste, quel coraggio che in
tanti speravano potesse esprimere si è trasformato in
piatta gestione degli affari quotidiani. Cosicché Donald Tsang si è attirato
l'ira dei manifestanti. «Sei il servo degli imperatori». Pechino ha
pure provato, venerdì, a convocare in «campo neutro», a Shenzhen,
i leader della marcia ma è stato un dialogo - per
ora - fra sordi. Da un lato c'è il regime che non intende sentire parlare di
suffragio universale e di elezione diretta sia del
governatore di Hong Kong (il sistema in vigore concede a Pechino il
gradimento vincolante e sostanzialmente l'indicazione del nome) sia del
consiglio legislativo (espressione solo al 50 per cento della volontà
popolare). Dall'altro non arretrano le opposizioni, che forti della «Basic Law» chiedono di allargare a partire
dal 2007 il sistema di voto e quanto meno sollecitano la discussione
su una data. L'anno scorso Pechino ha modificato le carte in tavola
congelando la prospettiva del suffragio universale. Per di più Donald Tsang, il governatore,
ha presentato un progetto di riforma del parlamentino della
ex colonia che estende il numero dei rappresentanti nominati dalle
«corporazioni». Altro che democrazia. «Un imbroglio», hanno urlato in
centomila. Forse nemmeno gli organizzatori speravano che fossero così tanti.
Le previsioni si fermavano a 30 mila. Poi sono cresciute. Un forte richiamo
ha esercitato Anson Chan,
ex numero due del vecchio governatore, elegante signora con 37 anni di
servizio nell'amministrazione civile che si era dimessa nel 2001 per «motivi
personali». Aveva sbattuto Fabio Cavalera Corriere della sera
di lunedì 5 dicembre 2005 |
|