La strana coppia
Ci voleva il discorso pronunciato da Benedetto XVI durante la visita a Carlo Azeglio Ciampi, venerdì 24 giugno, per mettere a nudo nel modo più plateale la fragilità del sistema politico italiano e di chi lo guida. Quel giorno sia Silvio Berlusconi sia Romano Prodi si sono precipitati ad applaudire le parole del Sommo Pontefice, sebbene esse annunciassero una nuova stagione di sconfinamenti della Chiesa nei territori che appartengono o dovrebbero appartenere allo Stato. Ora, che il premier esprimesse “accordo totale” con papa Ratzinger era prevedibile: l’ossequio alla gerarchia ecclesiastica e in generale ai presunti poteri forti, è da decenni l’architrave della sua filosofia esistenziale. Meno scontato era che il capo dell’opposizione, in un’intervista a Radio Vaticana, si vantasse di aver “lavorato per mettere risorse a disposizione della scuola privata” in barba all’articolo 33 della Costituzione, nonché di aver “partecipato con tanta passione e tanto a lungo al problema dell’inserimento delle radici cristiane nel trattato costituzionale europeo”. Con accenti ruiniani Prodi ha anche invitato tutti a “tenere come stella polare la difesa della vita”, come se nel centro-sinistra o altrove prosperasse un abietto partito della morte che urge debellare.
Niente di male, per carità: nessuno si augurava che proprio davanti a Sua Santità i due campioni del bipolarismo all’italiana esibissero un anticlericalismo da strapazzo. Alla voce della Chiesa è sempre giusto prestare ascolto. Sta di fatto, però, che nel tripudio degli opposti conformismi l’ottimo Ciampi è rimasto pressoché solo nel dirsi orgoglioso di vivere in un’Italia laica. E la prontezza con cui Berlusconi e Prodi sono partiti all’inseguimento della benedizione papale, o più prosaicamente del voto dei cattolici, è stata la plastica raffigurazione della debolezza ormai cronica che affligge entrambi i leader. I quali non a caso, in occasione dei quattro referendum sulla procreazione assistita, si erano chiusi nello stesso imbarazzato silenzio, pur di non spiegare con chiarezza ai cittadini se e come sarebbero andati a votare. I manovratori d’oltre Tevere non dovevano essere disturbati.
C’è qualcosa di malinconico, inutile nasconderselo, nella prospettiva di un duello Berlusconi-Prodi fra dieci mesi. Sarà un grigio dèja vu, dal momento che i due si scontrarono per la prima volta nel lontano 1996. può darsi, beninteso, che né la Casa delle Libertà né l’Unione oggi dispongano di candidati migliori; ma è difficile non scorgere nel mancato ricambio delle leadership un nuovo segno del declino del paese, giacché alle spalle di Berlusconi e di Prodi non ci sono certo storie recenti di successi. Uno ha fallito la prova del governo, seminando sfiducia fra la gente nonostante l’ininterrotto cicaleccio ottimistico, mentre l’altro è reduce da un quinquennio a Bruxelles del quale il minimo che si possa dire è che non ha accresciuto la sua popolarità.
Un tratto comune è che tutti e due vengono definiti inamovibili dai rispettivi schieramenti, dove non hanno concorrenti credibili che li sfidino a viso aperto, però sanno che dietro le quinte mugugnano gli scettici. Prodi perciò sente il bisogno di legittimarsi con le primarie, benché costituiscano un alto nel buio; Roberto Formigoni propone le medesima procedura anche per il centro-destra, sia pure ala condizione che prima sia Berlusconi, nell’esercizio di una sovranità opportunisticamente ribaditagli, a fare un passo indietro.
Che la strana coppia tenda a comportarsi come tale, poi, è evidente nella foga con cui ciascuno dei suoi componenti ha cercato o cerca di superare le difficoltà concentrandosi non sul che cosa fare ma sul come farlo, non sui programmi ma sugli assetti organizzativi. Prodi finora ha dato battaglia, invano, soltanto per imporre il listone unitario dell’Ulivo in vista delle elezioni del 2006, Berlusconi da mesi non fa che propugnare, disordinatamente, un partito unico “dei moderati e dei riformisti”. Condannati a rifugiarsi nel politicismo, i sedicenti cavalli di razza appaiono spompati. Nessuno dei due, davanti a un fatto eclatante coem la crisi dell’Unione europea ha saputo proferire più che qualche fioca banalità.
Dove la simmetria fra le contrapposte vaghezze balza agli occhi, tuttavia, è soprattutto nella mancanza di ricette convincenti per il rilancio dell’economia. Prodi afferma, con una palese esagerazione, che “il paese è in una situazione disperata”; Berlusconi ribatte che tutto va benissimo, confondendo la propria smisurata ricchezza con un benessere collettivo che si sta riducendo di continuo. Domenica 26 il suo luogotenente Sandro Bondi si è premurato di gettare un ponte fra le speculari forzature, formulando l’ipotesi di un governo di unità nazionale dopo le elezioni. Ma è dubbio che dall’incontro fra le due debolezze possano sprigionarsi chissà quali flussi di energia.
Questo è lo stato delle cose. Che i candidati alla presidenza del Consiglio vengano sostituiti non sembra probabile: hanno ancora una certa presa sugli elettorati di riferimento; e coloro che più realisticamente potrebbero aspirare ai loro posti insistono nel rifiuto di farsi avanti. La ritrosia dei Fassino, dei Veltroni, dei Casini conferma però che nell’attuale configurazione dei poli c’è qualche aspetto patologico. Molti sostengono che le elezioni sono troppo vicine perché sia il caso di ridiscutere davvero, non pro forma, i leader. Forse hanno ragione. Eppure non si sfugge all’impressione che la continuità sia un handicap, che ci vogliano delle ventate di aria fresca, che personaggi meno usurati abbiano in fondo maggiori chances di vittoria.
Claudio Rinaldi