L’ambigua arte di
Michael Moore
Nel 2004 George
W. Bush viene confermato Presidente degli Stati Uniti, si guadagna il titolo di Uomo dell’Anno per la rivista Time ed entra nella storia del cinema come protagonista di un film
di successo.
Mentre scrivo mi
scorrono davanti le immagini della cerimonia di
insediamento alla Casa Bianca. Bush continua a
interpretare la sua parte tragicomica, non ci vuole troppa fantasia per vedere
la cosa in questi termini, per leggere ogni porzione di realtà mediatica presidenziale
come integrazione virtuale di Fahrenheit
9/11. Sull’onda di questo lieve effetto allucinatorio si può dire, ora più
facilmente che prima, qualcosa ancora sul film e sul suo
americanissimo regista, che ha senza dubbio il dono di suscitare forti
emozioni nei sostenitori come negli avversari.
Il dibattito si è subito concentrato sull’immediato valore d’uso
che tutti, a cominciare dallo stesso Moore, riconoscevano: il supporto alla
campagna elettorale di Chiunque contro G. W. Bush. Poi, consumata la
catastrofe, nella sbrigativa ricerca del tradizionale capro espiatorio, gli
occhi di molti si sono rivolti in direzione di Michael
Moore che, da parte sua, non si è scomposto più di tanto producendo a favore
del suo impegno dati convincenti sul voto giovanile.
Si potrebbe
parlare a lungo sul degrado raggiunto dalla percezione e dalla realtà della
politica, se si arriva a (fingere di) credere che con
un film si possano vincere o perdere le elezioni. Ma conta di più affermare che
Fahrenheit 9/11 non è solo propaganda
elettorale o una puntata lunga delle Iene: è un film bello e
importante, anche se non compiuto come i precedenti di Moore. E’ anche un
oggetto sfuggente e di difficile identificazione, facile preda di analisi strumentali di un segno o dell’altro.
Michael Moore non
fa troppo una bella figura se lo si prende per ciò che
non è; un politico ad esempio. Una qualifica che rifiuta con decisione, vuole restare uno del popolo, un figlio della comunità
operaia di Flint, Michigan. Difficile negare che gli piaccia
incarnare la parte del paladino della verità, ma molti che lo hanno conosciuto
personalmente hanno dovuto fare i conti con il suo lato oscuro, la sua
paranoia, i suoi capricci da star. Il punto è che Big Mike è una star,
si è conquistato il diritto sul campo del cinema perché ciò che sa fare meglio
è lavorare con le immagini e con i suoni, dare forma filmica
non solo alla paura e alla follia del tempo, ma anche all’indignazione,
all’ironia indomita, alla voglia di riscatto.
Ammettiamo che in
Fahrenheit 9/11 l’analisi
storico-politica non sia impeccabile, per quanto Moore rivendichi
l’irrefutabilità dei fatti su cui si basa, la cura con cui viene innescata la
carica emotiva del flim surclassa quella destinata alla funzione informativa e
di commento. Aldilà della sincera volontà di mostrare
al grande pubblico, perlomeno americano, e l’abilità nel reperire
materiali, Michael Moore non è un giornalista d’inchiesta.
Quentin
Tarantino è un esteta che, qualunque cosa possano dire
i conservatori e gli antifrancesi, non premierebbe un film per ragioni
politiche neanche con una pistola dietro la nuca. Dopo la
consegna della Palma d’oro ha spiegato tra l’altro che Fahrenheit 9/11 “fa pensare, diverte amaramente, ci angoscia con
pietà e orrore. Va oltre la politica”. Le opere di
Moore vengono indistintamente indicate con i termini
film e documentario, vengono indistintamente premiate come documentari o come
film tout court, ma sono degli strani oggetti. Oggetti non identificabili con
cui è difficile, o troppo facile, fare i conti e questa confusione per nulla
innocente ha implicazioni profonde sulla loro percezione.
Alla conferenza
stampa di Cannes, tra una domanda e l’altra sulla sua visione politica, Moore è
riuscito a dire che il suo scopo “è quello di fare qualcosa che mi piaccia
vedere al cinema al venerdì sera”. In fondo Fahrenheit 9/11 è un montaggio di generi
diversi:la fiction processuale nella scena in cui i
rappresentanti degli elettori tentano di aprire un’inchiesta sulle elezioni, il
film di guerra nelle sequenze di battaglia a ritmo di heavy metal, ombre di
Arancia meccanica nella sconvolgente scena in cui i soldati deridono il
cadavere, e poi il giallo, la spy story, la satira fino a sfiorare il
demenziale quando entra in scena il protagonista. Cinema puro, paradossalmente,
dove è possibile incontrare quanto Hollywood abbia mai sognato.
Ma ciò che vediamo è accaduto davvero. I morti sono morti,
le case sono state distrutte, le parole sono state dette, sono state versate le lacrime dell’undici settembre, tragedia che Moore
ci fa solo ascoltare su un fondo nero, sguardo cieco a depurare gli occhi
dall’assefuazione. Bush ha davvero continuato a leggere La mia Capretta mentre le torri si preparavano al collasso.
Così, in piena
indipendenza dalle nostre convinzioni di politica internazionale, possiamo
indignarci per questo uso spettacolare, sebbene in
buona fede, di una realtà terribile e possiamo biasimare il prevalere
dell’invettiva populista sulla critica razionale dei fatti. Oppure possiamo
riconoscere che con il maturare della società dello spettacolo la distinzione
tra fiction e documentario perde progressivamente di senso e che la prassi di
Moore sancisce l’evanescenza di questo confine.
Come raccontare
il simulacro di una guerra che consumiamo
quotidianamente? Come spiegare le direttrici impazzite della politica? Come
veicolare le notizie quando con l’informazione aumenta
esponenzialmente anche il rumore che l’accompagna e l’affoga? Michael Moore
sceglie di usare le stesse armi del potere, lo stesso uso delle immagini con
cui si costruisce il consenso, cambiandone il segno.
Ciò che redime il suo lavoro non è l’enorme abilità tecnica, ma la passione con
cui sceglie le immagini e le fa sue, gli da un’anima. Le immagini, tutte le
immagini, di per sé non mentono e non dicono la verità, non vanno contemplate o
credute, richiedono il lavoro e la partecipazione di chi le fa e di chi le
guarda.
Taxi Driver è
uno dei film preferiti di Michael Moore, viene anche citato nella prima sequenza
di Fahrenheit 9/11. E’ la storia di Travis Bickle, un reduce ossessionato dal degrado
sociale che decide di uccidere un candidato. Nella sete di vendetta di
Travis c’è il negativo, reazionario perché privo di elaborazione
intellettuale e di cultura, del populismo sincero e in fondo tradizionalista di
Moore. Alla fine l’attentato fallisce, in compenso Travis fa
una strage di gangsters e diventa un eroe dei media. Una parabola
inquietante, ma Big Mike, il nostro eroe, il militante e la star, il predicatore
e l’entertainer, ha i mezzi se non per fermare presidenti per farci riflettere
su ciò che vediamo e ascoltiamo mentre ci offre tutte
le emozioni del cinema. Almeno per altri quattro anni.
ALESSIO TRABACCHINI
Ragioni socialiste gennaio-febbraio 2005