LE INDAGINI SCOMODE
Francesco
Fortugno è una vittima della mafia calabrese, e sarebbe
assurdo farne improvvisamente un complice o un sodale. Ma i risentimenti
suscitati dallo sviluppo delle indagini dopo la scoperta dei suoi contatti telefonici
con un esponente della 'ndrangheta, è il risultato di un teorema che ha
ispirato in questi anni il lavoro di molti magistrati e il giudizio di alcuni uomini politici. Secondo questo teorema la società
di alcune regioni meridionali sarebbe spaccata tra le
organizzazioni mafiose, spesso in combutta con una parte dei ceti dirigenti, e
il popolo buono, succube delle vessazioni di una clique politico-criminale. Per
risanare una società malata basta quindi colpire il drago e liberare il popolo
prigioniero. E' una tesi che tutti, involontariamente, abbiamo
contribuito a diffondere registrando con gioia, come eventi decisivi, le
manifestazioni popolari dopo gli assassinii degli scorsi anni, i lenzuoli
bianchi alle finestre delle case di Palermo, i dibattiti sulla mafia nelle
scuole siciliane. Molti pensarono che il popolo buono si era
ribellato alla tirannia dei clan e che il potere delle organizzazioni
criminali aveva i giorni contati. Il principale tentativo di provare l'esattezza
di quel teorema fu naturalmente il processo di Palermo contro Giulio Andreotti.
Temo che questa spiegazione ideologica, cresciuta su un terreno coltivato da
una certa cultura marxista e cristiana, abbia offuscato la natura del problema.
Non esistono sfortunatamente in Calabria e in Sicilia due entità distinte,
composte rispettivamente da buoni e cattivi. Esiste una larga area della
società in cui si è formata col passare del tempo una rete di complicità,
collusioni, silenzi interessati, relazioni familiari, favori fatti e ricevuti.
Questo non significa che i siciliani e i calabresi siano
mafiosi. Significa tuttavia che ciascuno di essi può
essere esposto, più dei loro connazionali in altre regioni italiane, al rischio
di una pressione, di un ricatto o di una scelta moralmente sgradevole. Ed è evidente che il rischio è particolarmente forte nel
mondo della politica, inevitabile crocevia di scelte da cui può dipendere una
carriera professionale, la fortuna di un'azienda, la ricchezza di un
imprenditore. La tesi secondo cui la destra sarebbe
vulnerabile e la sinistra virtuosa, è semplicistica e può oscurare la natura
del problema. In Sicilia e in Calabria, destra e sinistra sono spesso distinzioni di comodo, e il voto degli elettori
sembra rispondere a motivazioni locali piuttosto che a scelte ideali. Non si
spiegherebbe altrimenti l'altissimo numero di preferenze conquistate alla elezioni europee da Salvo Lima, sospettato di amicizie
mafiose e assassinato nel marzo del 1992. Non si spiegherebbe l'improvviso
successo di Leoluca Orlando negli anni successivi e la vittoria del
centrodestra in tutta l'isola nelle politiche del 2001. Sono sicuro che la
Calabria, come già in parte la Sicilia, riuscirà a
uscire un giorno dal suo timoroso silenzio e da questa zona grigia in cui molte
persone possono essere sinceramente contrarie alla mafia, e tuttavia al tempo
stesso inserite, magari involontariamente, nelle sue trame. Ma
l'unica via da percorrere, nel frattempo, è quella delle indagini freddamente
distaccate che non trascurano nulla, non hanno pregiudizi ideologici, non danno
nulla per scontato e si propongono un solo obiettivo: la verità.
Sergio Romano
Corriere
della sera di lunedì