IL PROF-IMMIGRATO: VI INSEGNO A COMUNICARE

«Mi chiamo Amadu Matar Diaw, vengo dal Senegal». C'è un fotografo che indugia sui dettagli. I mocassini neri (finto coccodrillo), i jeans a vita bassa, la giacca (finta Dolce & Gabbana). E invece bisogna guardarlo in faccia questo immigrato senegalese di quarant'anni, uno che fino a tre mesi fa vendeva accendini e fazzoletti e che adesso lavora alle dipendenze di un padroncino, insomma un «vu cumprà» che è quasi riuscito a integrarsi nella società fiorentina: bisogna ascoltarlo mentre dice che l'ha imparato qui da noi, «che le persone si giudicano da come sono vestite», e mentre si siede dietro a una cattedra della Facoltà di Scienze della formazione dell'Università di Firenze. Vi si accomoda su richiesta del professor Luca Toschi, il quale gli affida la prima lezione di «Teoria e tecnica della comunicazione multimediale». Sono le 10 del mattino. Studenti pronti a prendere appunti. L' idea di invitare Amadu Matar Diaw non è, ha assicurato il professor Toschi, «una provocazione. O, peggio, una trovata pubblicitaria». Questa lezione, che di fatto inaugura l'anno accademico, fa parte di un progetto di ricerca che ha un titolo eloquente: «Le strade della comunicazione». Ecco, appunto: le strade. Quelle che, negli ultimi quattro anni, con la sacca carica di merce, ha battuto il nostro estemporaneo docente senegalese. Strade difficili, ostili e accoglienti, di pioggia e di sole. Su quei marciapiedi egli ha guadagnato, s'è conquistato un regolare permesso di soggiorno e, soprattutto, ha imparato a conoscere gli italiani. Per questo, il professor Toschi arriva a definirlo «un'autentica sonda umana. Un eccellente ricercatore che ci studia e che ci aiuta a conoscerci». Il signor Amadu Matar Diaw, accanto al quale siede la moglie Mariama Fall, segretaria generale dell'Alleanza dei senegalesi a Firenze, spiega che «la prima, grande difficoltà incontrata è stata quella di riuscire a guardare negli occhi il potenziale cliente italiano. Perché voi italiani, voi fiorentini, avete perso l'abitudine di guardare chi vi parla». All'inizio, Matar Diaw temette che quel tirare diritto fosse «una forma di razzismo». Con il trascorrere dei mesi, s' è poi invece convinto che «avevo semplicemente deciso di commerciare con una popolazione che ha perso la voglia di socializzare. Anche solo di capire chi gli sta rivolgendo la parola». Gli studenti ascoltano in silenzio. I fotografi hanno smesso di scattare. Prosegue Matar Diaw, con il suo italiano sorprendente: «Noi senegalesi abbiamo il commercio nel sangue. Ma anche voi l'avevate. Ho studiato, io, e lo so che avete navigato ovunque e venduto ovunque. E per vendere bisogna essere aperti, positivi, sicuri. Voi adesso siete invece una popolazione chiusa e timorosa». Mentre la lezione scorre veloce, davanti al numero civico 1 di via Gioberti, dove ha sede l'Istituto, arriva qualche rappresentante della locale comunità senegalese e racconta che «su questa iniziativa, ci siamo un po' spaccati. Alcuni di noi, infatti, ritengono che il far tenere una lezione universitaria a un cosiddetto "vu cumprà", possa quasi sembrare una legittimazione del lavoro clandestino...». Replica il professor Toschi: «Il problema è inesistente. La presenza di questo immigrato ha solo valore scientifico. Dico di più: con Matar Diaw aspettavo anche un suo amico. Il quale, purtroppo, non ha ottenuto il permesso dal datore di lavoro». Su questi datori di lavoro bisognerebbe tenere ovviamente altre lezioni, per capire chi sono e se pagano, e come, e quanto, questi immigrati. Davanti al portone della facoltà ne passano in continuazione. Arrivano dalla periferia e sono diretti nei vicoli e dentro le piazze del centro storico. Facce di immigrati stanchi, carichi di fazzoletti che si rompono, di calzini di nylon, carichi delle cianfrusaglie che conoscete. Matar Diaw li osserva dalla finestra: «Come me, sperano di farcela».

 

Fabrizio Roncone

 

Corriere della sera di giovedì 27 ottobre 2005

 

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