"CARI
PALESTINESI, AVETE SBAGLIATO"
«Fratelli
miei, avete sbagliato tutto». Persino sul letto di morte, ormai stroncato dalla
leucemia, Edward Said, il più grande intellettuale palestinese, coscienza critica di un popolo vittima e complice dei propri errori, ha
continuato a piantare con lucidità la sua sonda spietata nelle ragioni più
profonde di un doloroso fallimento. Favorito dalla strategia degli israeliani
che, diceva lo scrittore citando i romanzi di Jane Austen, hanno sempre fatto
gravare sulle concessioni dell'ultimo minuto «condizioni, restrizioni e
clausole su proprietà che si attendono all' infinito e
non si possono mai ottenere materialmente». Ma fallimento provocato
parallelamente dall'insipienza, da un «dirigismo prossimo all'autocrazia» e
dalla dilagante corruzione che hanno seguito come
ombre inquietanti la nascita e il tormentato cammino dell'Autorità nazionale
palestinese, cioè l'embrione di quello che dovrà diventare il futuro Stato. Con
un furore intellettuale che trasuda da tutti i suoi scritti, il celebre autore di Orientalismo sgretola le speranze nate con gli accordi
segreti di Oslo del 1993, che portarono alla storica Dichiarazione di principi,
benedetta dalla stretta di mano fra il premier israeliano Yitzhak Rabin e il
presidente palestinese Yasser Arafat, nel giardino della Casa Bianca. Lo
scrittore, rispettato ma non amato, anzi decisamente discusso
dalla leadership dell'Anp, era infatti convinto che il processo avviato ad Oslo
fosse stato lo strangolamento delle aspirazioni palestinesi. In altre parole,
«un disastro». Il coraggio, universalmente riconosciuto, di cui diedero prova Rabin e Arafat è ritenuto da Said un equivoco
interpretativo, e il leader dell'Olp viene definito «responsabile di una
complice e devastante condiscendenza», sia nei confronti di Israele che degli
Stati Uniti. Lo scrittore ha sempre rivendicato il diritto intellettuale di non
essere acquiescente e comprensivo con la propria parte; e di giudicare con pari
intransigenza l'avversario, sostenendo che tutte le tappe prodotte dagli
«sciagurati accordi di Oslo» non furono altro che una
dolorosa messinscena. A cominciare dal fallimento degli
incontri di Camp David nell'estate del 2000, quando il traguardo della pace
pareva davvero vicinissimo. L'idea che, in quei giorni, il presidente
degli Stati Uniti Bill Clinton e il premier israeliano Ehud Barak fossero pronti a concedere quasi tutto mentre l'Olp
rifiutava ostinatamente la generosa offerta, viene smantellata senza
possibilità d'appello, perché giudicata «falsa». Ipotesi per
alcuni credibile, se si considera (come sostengono numerosi analisti) che
durante quel negoziato non vi era alcun impegno scritto: né su Gerusalemme né
sul diritto al ritorno né sulla terra da restituire; per altri, ipotesi assai
fragile, perché è fuor di dubbio che fu Arafat a respingere tutto, persino le
intenzioni, senza lasciar aperto uno spiraglio su quella storica opportunità.
Opportunità meramente teorica, dice Said: tanto teorica
da essere inesistente. Il titolo del suo ultimo libro, La pace possibile (il Saggiatore, pagine 348, e 20, in libreria da
martedì), che raccoglie gli ultimi articoli scritti per i quotidiani arabi
Al-Ahram e Al-Hayat, e che è una sorta di testamento politico, sembra
contraddire queste convinzioni. Ma non è così, perché
l'idea-forza del grande intellettuale palestinese, professore di Letteratura
comparata alla Columbia University di New York, è che non si debbano cercare
improbabili scorciatoie, ma lavorare seriamente, a testa alta e senza
sotterfugi, alla creazione dello Stato. Evitare quindi guerre
devastanti, sanguinose e soprattutto inutili, come la seconda Intifada, e
praticare invece la «resistenza non violenta». Che
significa tenere saldamente le proprie posizioni, rispettare (e non svendere) i
propri diritti, impedire con gli strumenti della disobbedienza civile la
costruzione e l'allargamento delle colonie nei territori occupati, attenersi
alla legalità internazionale. È anche vero che Said non ha esitato a
farsi del male da solo. Come quando, dopo il ritiro degli israeliani dal Sud
del Libano, fu fotografato al confine mentre lanciava
un sasso oltre la frontiera. Va bene che dall'altra parte c'era una fascia
deserta di un paio di chilometri, ma quel gesto
simbolico gli alienò molte simpatie. Alimentando, in Israele,
la convinzione che l'intellettuale fosse un «pericoloso estremista»; e fra i
palestinesi l'idea che fosse un utopista, prigioniero della propria immagine e
ignaro delle quotidiane sofferenze del suo popolo. Non bastano gli elogi
di Noam Chomsky e la stima di Daniel Barenboim ad attenuare questo drastico giudizio. In realtà l'intellettuale scomodo,
scomparso nel 2003, non piaceva né ai palestinesi né agli israeliani. È la
conferma della sua grandezza. Niente sotterfugi. Uno stato si crea con la lotta
non violenta.
Antonio Ferrari
Corriere della
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