IN
RICORDO DI SIMON WIESENTHAL
"Chi
nega l'esistenza dei crimini e genocidi del passato, pavimenta la strada per
gli assassinii del futuro": in queste parole e' racchiuso
il mezzo secolo d'attivita' di Simon Wiesenthal - sopravvissuto ai campi di
sterminio e fondatore del Centro di documentazione per la cattura dei nazisti
perpetratori di crimini contro l'umanita' - che si e' spento a 96 anni nella
sua modesta casa di Vienna. L'annuncio e' stato dato ieri dal rabbino Marvin
Hier, fondatore del Simon Wiesenthal Center di Los Angeles, che ha definito
Wiesenthal come "la coscienza dell'Olocausto". Nato
nel 1908 a Buczacz in quello che era l'impero austro-ungarico, Wiesenthal
divenne ingegnere e nel 1936 sposo' la viennese Cyla Mueller,
imparentata con la famiglia di Sigmund Freud, conosciuta al liceo di Leopoli. A
Buczacz, una minuscola cittadina galiziana, all'inizio della guerra vivevano
seimila ebrei - la maggioranza della popolazione locale. La guerra non ne vide tornare nemmeno uno, e lo stesso Wiesenthal non fece
mai ritorno in Galizia.
Qualche
anno fa, nel corso di un'intervista davanti a uno dei
computer del Museo dell'Olocausto di Washington, Wiesenthal spiego' cosa
accadde il 6 luglio del 1941 su quella stradina piena di prigionieri civili
inquadrata nel monitor. Era la Kazmierowska Strasse a Leopoli, e il giovane
Wiesenthal si trovava insieme agli altri ebrei della citta' rastrellati dalle
forze d'occupazione naziste, quando un SS inizio' a
sparare alla tempia dei civili in fila. Mancava una dozzina di persone prima
che il turno toccasse a lui, quando le campane
suonarono le 6 e l'SS disse: "Per oggi basta cosi'". I sopravvissuti
a quella prima selezione furono internati nel carcere locale dove piu' tardi ricevettero la visita di un civile ucraino, un
certo Bodnar che - riconosciuto in Wiesenthal l'ingegnere ebreo che gli aveva
trovato lavoro - gli promise di aiutarlo. Malgrado le buone intenzioni, pero',
Bodnar non pote' evitare che Wiesenthal insieme a milioni di altri percorresse
la tragica odissea che lo porto' attraverso vari lager nazisti, fino a
Mauthausen, dove si trovava, completamente debilitato dalla
fame, quando nel maggio 1945 gli americani liberarono il campo.
Nei
giorni successivi, ancora debolissimo, Wiesenthal visito' ripetutamente gli
uffici allestiti dagli americani in Austria per offrire il proprio aiuto:
"Ma questi - ricordava - mi rispondevano: 'Sei
libero, tornatene a casa, e' tutto finito'. A casa? In Polonia? Dove ogni pietra, ogni albero, ogni strada mi avrebbe ricordato
dell'accaduto?". Cosi' Wiesenthal, che pesava 35 chili e non aveva piu' niente e nessuno a cui tornare (nel maggio
'45 non sapeva ancora che la moglie era sopravvissuta come lui ai campi di
concentramento), stilo' un piano di ricostruzione della memoria, con nomi,
date, fatti, che consegno' al colonnello Siebel, un ufficiale dell'XI Army che
aveva aperto a Mauthausen un ufficio contro i crimini di guerra. Come incipit
per questo prezioso documento per l'intelligence statunitense (che non aveva
nemmeno sentito parlare di molti dei nomi elencati), Wiesenthal scelse le
parole: "Giustizia, non vendetta". Gli americani gli fornirono allora
una tessera di identificazione che gli permise di
proseguire le sue investigazioni. Ma nel dopoguerra gli assi degli interessi
politici slittarono, e i nazisti diventarono meno importanti mentre cresceva la
paranoia della guerra fredda. Wiesenthal divento' scomodo.
Decise allora di parlare con alcuni altri sopravvissuti e di convincerli
all'azione: con un gruppo di trenta persone, e un piccolo ufficio di tre stanze
nella capitale austriaca, impianto' il suo primo Centro di documentazione dal
quale prese avvio la sua missione di "Nazi
hunter", grazie alla quale riusci' a portare 1.100 criminali di guerra
davanti alla giustizia. Un lavoro inventato dal niente, una vita impiantata
sull'esperienza della morte, una missione perche'
"ci possa essere un futuro per i nostri discendenti", come egli
stesso dichiaro' in una celebrazione dedicatagli a Los Angeles nel 1993,
perche' "i nostri figli e i figli dei nostri figli possano imparare da
questa lezione: informazione significa difesa"...
Federica K. Clementi
Il Manifesto di mercoledì 21 settembre 2005