BIOGRAFIE RITOCCATE
PER ANTIFASCISTI REDENTI
«Gli
intellettuali che vissero due volte», li definisce Mirella Serri nel suo libro I redenti (Corbaccio) di cui hanno scritto sulle colonne del Corriere Aurelio Lepre, Luciano
Canfora e Giovanni Belardelli. Sono gli scrittori, i poeti, i pittori, gli storici,
i filosofi, i giornalisti che nella loro prima vita
furono fascisti, cantarono le lodi del Duce, aderirono più o meno
entusiasticamente al regime e passarono invece il resto della seconda vita, la
seconda, quella successiva al 1945, a cancellare le tracce della vita
precedente. Se ci si chiede perché sia andato tanto di moda in questi decenni
il sensazionalismo della scoperta compromettente (una lettera inviata a
Mussolini, la ricevuta di un finanziamento del
Minculpop, un articolo seppellito negli archivi e improvvisamente riemerso), la
risposta è che una verità troppo a lungo negata o rimossa finisce sempre per
riaffiorare in forme mostruose. Affermare che gli intellettuali
italiani ebbero prolungate e soddisfacenti relazioni con il regime
fascista non è più controverso. Dopo tanti anni di omertà
e di imbarazzo, la domanda meno ovvia è diventata questa: perché gli
intellettuali italiani hanno attraversato la loro vita di «redenti» occultando
ciò che era accaduto prima, inventandosi un passato inesistente, raccontando
percorsi esistenziali mai veramente vissuti? Il libro di Mirella Serri affronta senza scandalismo la questione di questa
frattura mai apertamente indagata, né dai singoli né da una storiografia
compiacente. Rilegge le pagine di Primato, la rivista di Bottai che la vulgata post-fascista ha descritto e glorificato come fucina
di antifascisti, vivaio di giovani ingegni dissidenti che seppero sfruttare
ogni opportunità consentita dal regime per manifestare il loro latente
antifascismo lungo la via della sicura «redenzione». E scopre che Carlo
Muscetta e Renato Guttuso, Giulio Carlo Argan e Mario Alicata, Giaime Pintor e
Galvano Della Volpe, e tutti gli altri antifascisti in pectore, antifascisti
dissimulati, antifascisti «nicodemiti», durante gli anni della guerra
nazi-fascista collaborarono a una rivista in cui l'impegno
bellico veniva esaltato come «un sacrificio religioso» e in cui ci si
commuoveva per le sorti dei «vari miti imperiali, mediterranei, europei,
storici e razziali». Proprio così: «razziali». Nelle riviste del «vivaio
antifascista» (non solo Primato, ma anche i giornali dei Guf, come Roma
fascista) la campagna antiebraica del regime veniva tranquillamente
assecondata, l'invettiva antisemita (nel 1941, nel 1942, mentre si stava mettendo
in moto la spaventosa macchina dello sterminio, non nei decenni precedenti) era
all'ordine del giorno. Ma nella seconda vita, nell'Italia repubblicana e
democratica e antifascista, c'è stato almeno un intellettuale di quelli che
offrirono la loro collaborazione a Primato e ne
ricevettero prestigio, che abbia riletto quelle pagine con una certa, sia pur
misurata e non autodistruttiva, vergogna? Nemmeno uno. E allora, perché
inventarsi (un'invenzione pura, come ha scritto negli anni passati Michele Sarfatti)
il mito del vivaio antifascista covato nelle stanze di un
potente gerarca fascista come Bottai in cui la politica del regime sarebbe
stata audacemente aggirata, ridicolizzata, svuotata da un nugolo di giovani
intellettuali che sembravano fascisti «fuori» ma in realtà erano antifascisti
«dentro»? Hanno detto: quelle riviste e quei giornali erano una nicchia di
relativo anticonformismo, delle piccole oasi di libertà. Ma quante oasi di
libertà fiorivano in una feroce dittatura che pure spegneva ogni spiraglio di autonomia e di dissenso? Gli intellettuali che
parteciparono alla covata di Giovanni Gentile hanno
raccontato (ma uno storico severo come Gabriele Turi ha drasticamente ridimensionato
la leggenda) che anche l'Enciclopedia italiana e la Normale di Pisa erano delle
oasi di libertà e dunque chi è stato con Gentile non si è compromesso più di
tanto con un esponente di punta della cultura fascista. Quelli che saggiarono i
loro ingegni nei Littoriali hanno anch'essi avanzato
l'idea che in quelle gare si materializzasse un'altra oasi di libertà, ma un
altro studioso, Luca La Rovere, ha spiegato come attraverso i Guf il fascismo
protendesse i propri tentacoli totalitari sulla gioventù italiana e che i
giovani dissenzienti protestavano perché il fascismo stava diventando troppo
poco fascista, troppo accomodante, troppo moderato e compromissorio: volevano
un fascismo rivoluzionario e intransigente. La teoria della molteplicità delle
oasi non regge a un minimo di indagine fattuale: i
giovani che stavano percorrendo «il lungo viaggio attraverso il fascismo» di
zangrandiana memoria a tutto pensavano fuorché di approdare all'antifascismo
«redento» dei decenni successivi. E dunque, perché non hanno raccontato la
verità? Nel corso dei decenni hanno elaborato piuttosto sofisticate
strategie di occultamento, raffinate e tortuose tecniche di
autogiustificazione, abbellendo le biografie, depurandole di ogni
contaminazione compromettente. Hanno avanzato a scusante l' attenuante
della giovane età, ma anche Vittorio Foa e Giancarlo Pajetta erano giovani, ciò
che non impedì loro di trascorrere i migliori anni della giovinezza nelle
prigioni fasciste. Hanno pateticamente ritoccato le date, retrodatando
clamorosamente il momento della loro uscita dal fascismo: Elio Vittorini
raccontò che con la guerra di Spagna lui aveva chiuso con il fascismo,
circostanza che tuttavia nel 1942 non gli impedì di partecipare (con Giaime
Pintor) a un convegno a Weimar presente Goebbels.
Carlo Muscetta, lo ricorda Mirella Serri, elaborò la scappatoia della
«dissimulazione onesta», per dire che chi partecipava alle iniziative del
regime faceva finta di aver aderito al fascismo ma in
realtà custodiva in petto un palpitante cuore antifascista. E poi si è imposta
la teoria della competenza «tecnica» e apolitica, per cui
un grande giurista come Piero Calamandrei poté collaborare con il Guardasigilli
Grandi per la stesura di un nuovo codice solo «tecnicamente» e soltanto
«tecnicamente» Argan poteva occupare un posto di rilievo nel ministero di Bottai.
Modi diversi ma convergenti per cancellare le tracce. Ma la
cancellazione della prima vita è stata pagata a caro prezzo. Perché il
disvelamento della verità occultata si è realizzato nell'ambito di un clima feroce di resa dei conti in cui ogni frammento
della prima vita cancellata è stato rinfacciato con una crudeltà che ha
costretto chi di volta in volta si è trovato «vittima» di una scoperta a
umilianti ammissioni, come accadde a Giovanni Spadolini e Norberto Bobbio,
oppure a spavalde negazioni, come nel caso di Giorgio Bocca, più volte
bersagliato a causa degli scritti antisemiti vergati nei primi anni Quaranta.
Una ferocia che ha finito per alimentare un clima di sospetto
nei confronti di chi, come Mirella Serri, si è chiesto come mai ancora
nel ' 43 un eroe come Giaime Pintor coltivasse l'idea di partire volontario con
la Wehrmacht per la campagna di Russia. Ma fare storia non significa accusare
qualcuno o emettere verdetti morali. Significa semplicemente accostarsi a una materia ancora viva, resa torbida da decenni
costellati da troppi silenzi.
Pierluigi Battista
Corriere
della Sera di giovedì 22 settembre 2005