SHAH IN SHAH

 

Iran 1980. Chiuso in una camera d'albergo a Teheran, Ryszard Kapuscinski, all'epoca inviato dell'agenzia di stampa polacca, cerca di spiegarsi cosa abbia provocato il crollo - all'apparenza repentino - del regime dispotico dell'ultimo monarca persiano e cosa abbia assicurato, proprio in quel momento, il successo del movimento rivoluzionario sciita. Sul suo tavolo ci sono un pugno di fotografie, gli appunti degli ultimi mesi e la trascrizione di una serie di conversazioni svoltesi nei due anni precedenti. Si tratta di provare a rimettere al loro posto le schegge di un discorso sul potere e sulle sue alterne vicende. Ovviamente andando al di là delle interpretazioni ufficiali e dei comunicati stampa di regime o dei proclami rivoluzionari. Ovviamente senza accontentarsi di ricostruire la muta catena degli eventi.

Shah in Shah (1982), pubblicato ora in Italia da Feltrinellinella traduzione di Vera Verdiani, nasce così. Dall'accanimento di un autore che ha dalla sua gli strumenti dello storico e del narratore, l'intuito e l'ostinazione del buon "cronista", fiuto e spericolatezza dadetective professionale. Il risultato è un'agile, luminosa lezione di storia: per ricostruire la caduta dell'ultimo monarca persiano, Reza Pahlavi, e l'ascesa dell'ayatollah Khomeini, Kapuscinski non può esimersi, infatti, da una riflessione più ampia e complessa sulle dinamiche della storia e sui mutamenti fluidi e "arbitrari" che sembrano contraddistinguerla.
Per l'autore i fatti rischiano di precipitare nel vuoto, di perdersi nell'indecifrabilità o nell'indifferenziazione, se chi li racconta, occupato a rincorrere la notizia del giorno, non sa scoprirne e comunicarne il senso. E il senso - legato com'è alla capacità di chi ne scrive di riconoscere nessi, somiglianze, ripetizioni - non si dà nell'assoluto presente del singolo evento. Esso va rinvenuto a poco a poco in una catena temporale e spaziale, che coinvolge il passato e l'altrove (ciò che è successo prima, non necessariamente in un solo luogo, non unicamente ai personaggi che oggi occupano la ribalta), e il futuro (il mondo delle previsioni, dei progetti, delle speranze, dei sogni).
Storico e giornalista, giornalista perché storico, Kapuscinski sa bene che il passaggio di informazione avviene solo se chi scrive sa ricordare, collegare, prevedere, e tuttavia lasciarsi sorprendere e "modestamente" tradurre il proprio stupore in racconto. E se il suo interrogare la realtà si accompagna a una riflessione costante sul "come" narrarla, tenendo conto del baratro geografico e culturale, che spesso separa ciò di cui egli/ella scrive dai lettori ai quali la sua scrittura è destinata.
In Iran, paese di cui non conosce la lingua, il polacco Kapuscinski sa di essere inchiodato alla propria alterità, condannato a una sorta di spaesamento. Ma proprio la non appartenenza, quel senso di disorientamento e insieme di libertà che si produce in noi quando ci spingiamo molto lontano dal "nostro" mondo, possono - se uniti a una schietta passione per gli altri e per le loro storie - trasformarsi in un formidabile strumento di lavoro. Solo lo sguardo dell'osservatore "distante" può infatti appoggiarsi sulle
cose con l'acuta obliquità che è necessaria a vedere senza perdere di vista se stessi.
"E' il potere", riflette ad esempio Kapuscinski, "a provocare la rivoluzione". E, aprendo una delle sue tipiche parentesi riflessive cariche di verità e di humour, prosegue: "Inconsciamente, beninteso... La scelta del momento in cui ciò accade è il più grande enigma della Storia. Perché quel giorno e non un altro? Perché è un certo avvenimento e non un altro a far precipitare le cose? Dopotutto, in passato il governo si è reso responsabile di abusi ben più gravi senza provocare la minima reazione.
'Che cosa ho fatto?', si chiede il sovrano, sgomento. 'Che cosa gli è preso tutt'a un tratto?'. Che cosa ha fatto? Ha abusato della pazienza della gente. Ma dove sta il limite di questa pazienza? Come definirlo? Se anche si tentasse di dare una risposta, essa varierebbe a seconda dei casi. La sola cosa certa è che i sovrani che conoscono l'esistenza di tale limite e lo sanno rispettare possono sperare di conservare a lungo il potere. Ma i sovrani di questo tipo non sono molti". E subito dopo, coniugando il buon senso con un imbattibile spirito d'osservazione, ecco la soluzione del mistero, o almeno di questo specifico mistero: "Come ha fatto lo scià a violare tale limite e a condannarsi con le proprie mani? Attraverso un articolo di giornale. Il potere dovrebbe sapere che una negligenza verbale può far crollare il più grande degli imperi. Sembra averne coscienza, sembra vigilante, eppure a un certo punto il suo istinto di conservazione lo tradisce e, fidandosi di se stesso e sopravvalutando le proprie forze, finisce male per aver peccato d’arroganza.
L'8 gennaio 1978 il giornale di regime "Etelat" pubblica un articolo che attacca Khomeini. All'epoca, Khomeini stava facendo guerra allo scià dall'estero, dove viveva in esilio. Perseguitato dal despota, espulso dal paese, Khomeini era l'idolo e la coscienza del popolo. Distruggere il suo mito significava distruggere qualcosa di sacro, mandare in frantumi le speranze degli umiliati e degli offesi. Tali erano precisamente le intenzioni di quell'articolo. Cosa bisogna scrivere per screditare un avversario? La cosa migliore è dimostrare che non è uno dei nostri - che è uno straniero. A tale fine si crea la categoria della vera famiglia. Noi, voi e io, le autorità e la nazione, siamo una vera famiglia. Noi viviamo uniti, tra i nostri. Abbiamo lo stesso tetto sulla testa, ci sediamo alla stessa tavola, sappiamo intenderci, darci una mano tra di noi. Purtroppo, non siamo soli. Tutt'intorno a noi vivono orde di sconosciuti, di immigrati, di stranieri che vogliono turbare la nostra pace e installarsi in casa nostra. Che cos'è
uno straniero? Innanzitutto è un individuo peggiore di noi - e, al contempo, è un individuo pericoloso. Se si accontentasse di essere peggiore e si limitasse a questo! Nient'affatto! Sconvolgerà le acque, fomenterà i disordini, distruggerà. Lo straniero e' in agguato. E' la causa delle vostre disgrazie. E da dove gli viene il suo potere? Dal fatto che dietro di sé ha forze strane (straniere). Tali forze possono essere identificate o meno; ma una cosa è certa: sono potenti. O meglio sono potenti se le prendiamo sotto gamba. Se, invece, non smettiamo di essere vigilanti e continuiamo a lottare, avremo la meglio. Guardate Khomeini. Ecco uno straniero. Suo nonno veniva dall'India, dunque chiediamoci: quali interessi serve questo nipote di straniero?".
L'autore è partito da una constatazione di ordine generale, paradossale e sensata: "è il potere a provocare la rivoluzione". Vale per l'Iran del 1979, come è valso per la Francia del 1789 o per la Russia del 1917. E' una legge storica universale. Solo che va ogni volta dimostrata. E lo storico (o quello storico del presente che dovrebbe essere il giornalista) che voglia riuscire a farlo deve saper individuare il microavvenimento che consuma una volta per tutte la pazienza di un popolo, facendo capovolgere il vaso della storia. Sono l'attenzione ai dettagli, alle minuzie apparentemente insignificanti del quotidiano a fare la differenza: Kapuscinski arriva a individuare nell'articolo di "Etelat" l'elemento scatenante della rivoluzione, perché per mesi ha prestato molta attenzione agli umori degli uomini e delle donne della strada e non si è mai affidato alle voci del palazzo. Lo individua, perché se lo aspetta. E se lo aspetta perché, se da un lato conosce bene i giochi tutto sommato ripetitivi del potere, dall'altro è strutturalmente dalla parte di chi a esso con ogni mezzo è pronto a opporsi non appena gliene si presenti l'indiscutibile occasione.
"Una nazione schernita da un despota", commenta infatti, facendo anticipatamente luce sui fondamentalismi a venire e invitandoci a guardare al di là delle apparenze, "umiliata, ridotta al rango di oggetto, cerca un rifugio, un luogo dove riuscire a rintanarsi, murarsi, essere se stessa... Ma una nazione intera non può migrare, essa dunque intraprende una migrazione nel tempo invece che nello spazio. Di fronte alle afflizioni che la opprimono e alle minacce del reale, fa ritorno a un passato che le sembra un paradiso perduto. Ritrova la sicurezza in costumi così vecchi, e di conseguenza così sacri, che il potere non osa combatterli. Ecco come si spiega, sotto tutte le dittature, la progressiva rinascita di usanze e costumi antichi, di simboli secolari - contro la volontà della dittatura, in opposizione ad essa... Più che di desiderio di rianimare l'universo dimenticato degli avi, si potrebbe parlare di ripicca politica".

 

Maria Nadotti

 

Lo straniero n. 18 ottobre 2001

 

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