LA STORIA NON RIPARTE DA ZERO

 

Mentre Ariel Sharon, all'alba del 2001, si preparava a diventare, per la prima volta e a furor di popolo, capo del governo di Israele, il leader laburista Shimon Peres, da sempre suo avversario politico, se ne uscì con una delle metafore che gli sono care: «È una vecchia tigre. Ma anche le vecchie tigri perdono i denti». Forse Peres pensava che il generale intendesse ammorbidire la propria naturale propensione al confronto muscolare, ma sicuramente non immaginava che un giorno non lontano il padrino degli insediamenti e l'apostolo del Grande Israele, che aveva vagheggiato l'idea di trasferire i palestinesi oltre il fiume Giordano, avrebbe osato lanciarsi, come una tigre con i denti forti e sani, contro il proprio passato, rompendo il tabù della sacralità della terra. Quel che sta accadendo, con l'evacuazione forzata dei coloni dalla striscia di Gaza, è infatti l'ultima tappa di un lungo cammino divorato in fretta. L'uomo che nel settembre 2000 compì la famosa passeggiata sulla spianata delle moschee di Gerusalemme, accendendo la violenta reazione palestinese sfociata poi nella seconda intifada, è lo stesso uomo che, diventato premier, dichiarava al Corriere: «Farò dolorose concessioni, ma non chiedetemi quali. Lo saprete più avanti». È l'uomo che nel 2004 vara il progetto di ritiro unilaterale da Gaza, spacca il suo partito, cambia alleati e squadra di governo, raccoglie il consenso di una sinistra che lo aveva sempre avversato, e calamita l'odio viscerale (fino alle minacce di morte) di quell'estrema destra che per decenni aveva rappresentato e protetto. È lo stesso uomo che l'altro giorno è andato in Tv per annunciare: «Avevamo un sogno (il Grande Israele, ndr). Non si è realizzato»; e per riconoscere che anche le sofferenze dei palestinesi devono avere un termine. Tuttavia, senza nulla togliere all'indubbio coraggio personale e politico di Sharon, bisogna dire che nulla è nato per caso, e che non si può sostenere che la storia ricomincia da zero, in questo agosto 2005. E' quindi ingiusto dimenticare coloro i quali piantarono le radici di questo lungo processo. Ben Gurion, nel 1967, dopo la guerra dei Sei giorni, confidava al presidente della corte suprema Haim Cohen: «Dobbiamo restituire subito i territori. Mantenerli, ci porterà solo guai e sofferenze». Menachem Begin, il leader conservatore che nel '77 vinse le elezioni infrangendo la continuità governativa dei laburisti e succedendo a Yitzhak Rabin, che si era dimesso perché sua moglie aveva un conto negli Usa di 5000 dollari non dichiarati, doveva rivitalizzare il sogno del Grande Israele. Firmò la pace di Camp David con l'Egitto, smantellò gli insediamenti ebraici nel Sinai, riconobbe (almeno in parte) i diritti dei palestinesi. Lo stesso Rabin, tornato al timone laburista, vinse le elezioni nel 1992. Lo chiamavano «mister sicurezza», ricordando la fermezza con la quale, per stroncare la prima intifada, aveva ordinato la linea dura (coercizione fisica, leggi botte) contro i ragazzi delle pietre. Ma lo stesso Rabin, l'anno dopo, avviò i colloqui segreti di Oslo, riconobbe l'Olp, strinse la mano ad Arafat in nome della «pace dei coraggiosi», e spalancò la porta al futuro Stato palestinese, contribuendo alla creazione dell'Anp. La speranza si infranse nel 1995, quando un estremista ebreo lo uccise, in una piazza di Tel Aviv. Contro gli accordi di Oslo si schierarono in tanti, e tra essi l'intransigente Sharon. Arafat, da partner, era diventato un ostacolo insormontabile: il neopremier, con lui, non voleva avere rapporti. Persino l'iniziativa di Ginevra, promossa dai pacifisti dei due campi e benedetta dalla comunità internazionale, era stata bollata dal primo ministro come un abuso e, insieme, un grave danno per la ripresa del cammino: «La pace la devono fare i governi». Ora Sharon sta realizzando quel che nessun leader, prima di lui, aveva osato. Le crude immagini che giungono da Gaza ne sono la conferma più evidente. Però lo stesso Sharon sa bene che, senza le spallate dei suoi predecessori, il suo coraggioso progetto non sarebbe stato possibile. Ecco perché il premier non cessa di rendere omaggio a Rabin, avversario politico ma compagno di tante imprese militari. E' un modo per riconoscere che la bandiera della «pace dei coraggiosi» ha trovato un nuovo e convinto alfiere. Quel che accade in queste ore è un'altra pietra miliare verso la futura realizzazione del sogno di due Stati, Israele e Palestina, che vivano in pace e sicurezza. Il traguardo è lontano, forse lontanissimo, ma l'evacuazione di Gaza è la concreta dimostrazione che indietro non si può più tornare.

Antonio Ferrari

Corriere della Sera di giovedì 18 agosto 2005

 

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